Caro Direttore, il Partito Democratico, dopo essersi consegnato mani e piedi a Beppe Grillo per interposto Giuseppe Conte, dibatte pateticamente sull’avvenire riservatogli dalla sorte. È smarrito, ma non in crisi di nervi. Del resto, ha perso ogni nerbo in questa legislatura, che può essergli fatale. È voluto andare al governo, costi quel che costi, e si ritrova spiaggiato come un tronco dalla risacca politica. Quando doveva imporre le urne per accreditarsi come partito guida della sinistra, si è fatto invece guidare da Matteo Renzi a far da diga contro l’uomo nero Matteo Salvini. La diga è crollata con la conseguenza che il Pd ha dovuto metterselo in casa, il leghista.
Mario Draghi ha soffiato ai democratici pure il ministero dell’Economia, fiore all’occhiello del Pd governativo. Il partito che divora i segretari come Crono i figli, adesso è in ambasce per il successore. Questo fatto è curioso davvero. Mentre la stessa sopravvivenza del regno è incerta, i regnicoli offrirebbero la corona a nobili decaduti. Invece di rafforzare il regno, cercano il regnante.
Il primo problema del Pd è costituito dal fatto che l’assemblaggio originario dei postcomunisti e postdemocristiani è finito male né poteva essere diversamente. Rosy Bindi ha sempre difeso l’operazione con l’argomento che il Partito Democratico ha fuso le due culture pronube della Costituzione. Appunto, verrebbe da obiettarle. La Costituzione fu un compromesso, figlio dei tempi. Il Pd è nato fuori tempo. Soprattutto, non è mai diventato un adulto dalla precisa fisionomia e dal carattere strutturato. L’antiberlusconismo ne è stato il vestito sgargiante. Però sotto il vestito poca cosa.
La prova provata consiste nel fatto che, appena è sorta alla sua sinistra una forza qualunquista, pauperista, anticapitalista, antimodernista, il Pd, sentendosene scavalcato, ha sentito il richiamo atavico “nessun nemico a sinistra” e ha rincorso il grillismo fino a magnificarne il capo del governo. Confesso un amaro segreto. Ho nutrito la speranza (flebilissima!) che il Pd diventasse davvero la forza organica maggioritaria del progressismo, purgata però dalle peggiori scorie del sinistrismo cattocomunista, perché speravo e spero che la vita politica possa evolvere verso un sostanziale bipartitismo. Il fallimento in corso, certificato dall’abbandono degli elettori, sembra dire che trattasi di pio desiderio.
Il secondo problema del Pd sta negli uomini e nelle donne da scegliere per farsene guidare. Quanto a questo, il fallimento è conclamato. I segretari politici del Pd non solo hanno abbandonato la nave in difficoltà e sotto attacco, ma addirittura sono scesi a terra a dar manforte agli avversari. Hanno fondato altri partiti, una caratteristica tutta e soltanto italiana per quantità, ma specifica del Pd. Evidentemente il partito non svolge l’essenziale e preziosa funzione consistente nel selezionare una classe dirigente all’altezza pure degli incarichi governativi. Adesso, tralasciando gli altri uomini e donne che i democratici vorrebbero trarre dalla riserva e porre a reggenti del partito, colpisce l’apparente entusiasmo per il ventilato ritorno del vecchio militante in esilio, da anni in Francia.
Non aveva lasciato per sempre la politica attiva? Fa il cincinnato? Rattrista che il Pd non trovi tra gl’iscritti un nome e una faccia che lo rappresentino, ma deve cercarli nell’emigrato che li abbandonò alla sua prima sconfitta. Scelgono un uomo prima e all’insaputa della sua politica. E lo chiamano rinnovamento. L’esule, cari democratici, non vi ricorda Bione di Boristene? Il vecchio cinico diceva che “non si può appendere all’uncino un formaggio molle”.
Pietro Di Muccio de Quattro