Non ce ne vogliamo rendere conto, non siamo ancora disposti a capire, una volta per tutte, che nell’economia mondiale la logistica, e in modo particolare la fluidità degli scambi, la fluidità della movimentazione delle merci, è la chiave che può garantire o bloccare la crescita. Il 24 marzo 1999 un incendio bloccò il tunnel del Monte Bianco provocando ingenti danni e la morte di 39 persone; per riaprire il transito furono necessari lavori che durarono tre anni e l’assenza di tale segmento essenziale impose il trasferimento del traffico su altri itinerari. Si stima che tra la ricostruzione e l’allungamento degli itinerari il valore del danno abbia superato i 3 miliardi di euro. Un danno, però, che pur se rilevante non pesò sulla intera economia mondiale, ma solo su quella dei due Paesi della Unione europea confinanti e di alcuni dell’intero sistema comunitario, invece quello che è successo il 23 marzo scorso, dopo praticamente 22 anni esatti, nel Canale di Suez ci ha fatto capire e al tempo stesso misurare quanto sia pericoloso sottovalutare la sudditanza della economia mondiale dalle strozzature, dai nodi presenti nel tessuto connettivo che disegna i processi di scambio delle varie filiere merceologiche.
In realtà la crisi petrolifera del 1973 e il conseguente blocco della economia mondiale fu causata dalla mancata disponibilità sui mercati del petrolio, oggi invece il blocco della economia mondiale è legato ad una emergenza logistica. Una portacontainer lunga 400 metri incagliatasi nel canale di Suez. Un bestione leggermente più alto dell’Empire State Building che trasporta a pieno carico 20mila Teu (twenty-foot equivalent unit, cioè ha a bordo 20mila container da 20 piedi, o 10mila da quaranta), ed è arenato di traverso, probabilmente per via di una raffica di vento, in un canale largo 200 metri, toccando entrambe le sponde e bloccando soltanto il passaggio di più di trecento mercantili e rallentando, ogni giorno che passa, il flusso marittimo commerciale che dall’Asia passa nel Mediterraneo e va in Nord Europa. Penso siano utili solo due dati per capire il danno provocato da un simile incidente: – l’ingorgo di Suez é costato agli armatori 500mila euro al giorno per nave; – nel caso in cui il blocco avesse raggiunto le due settimane erano previsti circa un milione di tonnellate di gas mancanti verso l’Europa.
Nel lontano 1985 la segreteria del Piano generale dei Trasporti, presso il ministero dei Trasporti, ritenne opportuno effettuare uno studio di fattibilità sulla possibilità di ampliare il Canale di Suez, io ero Capo della segreteria del Piano e insieme all’ingegner Massimo Perotti e alla Snam Progetti (la Società che supportava il Piano per le reti di trasporto in condotta) redigemmo tale studio di fattibilità convinti che la vita del Mediterraneo e quindi dei nostri impianti portuali era legata proprio alla efficienza ed alla funzionalità di tale Canale. La proposta progettuale fu condivisa pienamente dall’Egitto e fu sottoscritto un apposito accordo bilaterale tra il Governo italiano e quello egiziano, accordo mirato a dare avvio concreto alla realizzazione dell’opera; ricordo, però, che nella nostra proposta veniva indicato un raddoppio con due canali indipendenti e non un semplice allargamento, proprio per evitare che un blocco di una nave potesse incrinare la funzionalità e la efficienza dei transiti e, sempre in tale proposta progettuale, ribadimmo che il Canale di Suez incideva direttamente non solo sulla economia dell’Egitto (nel 1985 i proventi dai pedaggi rappresentavano il 60 per cento dell’entrate del Paese), non solo sulla economia dei Paesi che si affacciavano sul Mediterraneo, ma sulla intera economia mondiale.
Attraverso Suez infatti transitavano e transitano il 30 per cento dei container dell’intero pianeta, il 12 per cento delle merci e circa il 7 per cento del petrolio, Ma per evitare di legarci a percentuali poco significative, riporto i valori assoluti attuali: nel 2020 sono transitate nel canale di Suez oltre un miliardo di tonnellate di merci, pari a 18,829 transiti navali, di cui un quinto di queste per la prima volta, incentivati dai forti sconti sul pedaggio introdotti dal governo di Egitto con l’inizio della pandemia. Il 2019 è stato uno degli anni migliori della sua storia per i ricavi, pari a 5,8 miliardi di dollari, mentre nell’anno del Covid gli introiti sono stati solo 200mila dollari inferiori. Per l’Italia il canale di Suez è fondamentale per l’interscambio marittimo con l’Asia, che nel 2020 è valso 82,8 miliardi di euro, il 40 per cento del commercio marittimo complessivo del Paese. Appare evidente che con il blocco del Canale entrano in seria difficoltà filiere merceologiche come quelle dell’auto, dei telefonini, della plastica e in genere della componentistica; il gruppo danese Maersk ha dichiarato che è pronto a dirottare via aerea e via terra le spedizioni bloccate, il gruppo tedesco Hapag Lloyd deciderà subito se rinunciare a passare da Suez e circumnavigare l’Africa.
Questa evidente coscienza della criticità dei transiti ha portato ancora il nostro Paese, prima ancora della proposta cinese con il progetto La Via della Seta che affronterò dopo, a prospettare, in occasione della redazione del Piano dei trasporti irakeno (redatto nel 2003 dalle Ferrovie dello Stato, dell’Anas, dell’Enac, dell’Enav e coordinato da me e dal professor Giuseppe Moesch), la realizzazione di un corridoio stradale e ferroviario che dal porto di Bassora attraversava l’intero Iraq, raggiungeva Mosul e poi un asse attraversava la Turchia entrando nel Mediterraneo e un asse si agganciava al Corridoio 10 delle Reti Ten-T e raggiungeva il Nord Europa. Indipendentemente dalle aspirazioni espansionistiche la Cina con la iniziativa One Belt One Road (la Via della Seta) ha in realtà affrontato questa pericolosa emergenza, questo grave ricatto posto dalla unicità delle reti, dalla non ridondanza della offerta di trasporto, identificando due alternative al Canale: – una meno nota che dal porto di Mombasa (costruito dai cinesi) con un asse autostradale, in corso di realizzazione sempre da parte dei cinesi, raggiunge Lagos e quindi anche se con due rotture di carico consente alle merci di evitare Suez; – una con la realizzazione di un asse ferroviario che consente un collegamento sistematico di treni merci da Pechino ad Amburgo e da due anni anche con alcune piastre logistiche del nostro Paese.
Senza dubbio partendo dallo sviluppo delle infrastrutture di trasporto e logistica, la strategia cinese mira a promuovere il ruolo della Cina nelle relazioni globali, favorendo i flussi di investimenti internazionali e gli sbocchi commerciali per le produzioni cinesi, ma questa scelta, a mio avviso mette in crisi la portualità dell’intero Mediterraneo. Nessuno, infatti, pensava che la Cina, cercando di rendere ridondante e ricca di alternative la offerta trasportistica, decidesse di pianificare al nostro posto un terzo del mondo. La Cina, in realtà ha identificato, a titolo di esempio, sei grandi Hub: Mombasa, il Pireo, Genova, Rotterdam, Pechino e Singapore. Tutti gli scambi e tutte le evoluzioni del mercato delle grandi filiere merceologiche avranno come riferimento questi punti topici di una realtà che rappresenta oltre il 50 per cento dell’economia trasportistica mondiale. In tale visione strategica, rimane solo il porto di Genova e scompare la intera offerta di Hub strategici del Mezzogiorno. Forse questo grave incidente nel Canale di Suez è stato utile per ricordare a noi stessi, alla nostra assenza per molti anni da questo teatro mondiale della logistica, che non si vive più di “rendite di posizione”, specialmente se non si è in grado di produrre proposte strategiche di ampio respiro, se non si è in grado di costruire alleanze corrette e utili davvero alla crescita del nostro Paese.
ERCOLE INCALZA