di F. Traú
Nonostante le migliori intenzioni, e l’impeccabile scelta di affrontare la gestione della campagna vaccinale in modo coordinato e solidale, la soluzione partorita in ambito europeo per acquisire le dosi di vaccino necessarie sta rivelando limiti evidenti, che rischiano di pregiudicare i risultati dell’intero processo. Il punto, a parere di chi scrive, è meno negli aspetti tecnici che in quelli (in senso lato) politici, e ha a che vedere con l’impostazione logica del meccanismo attraverso cui si è scelto di attivare l’offerta.
Il fatto più eclatante, tanto da risultare inspiegabile agli occhi di molti tra gli stessi scienziati, è costituito dalla totale assenza fin dall’inizio di un progetto di produzione dei vaccini su licenza: assenza tanto più incomprensibile all’interno di un continente dotato di una tra le industrie farmaceutiche più sviluppate del mondo, e dunque potenzialmente in grado di muoversi in autonomia direttamente sul terreno produttivo.
Questa soluzione – in aggiunta alla stipulazione di accordi commerciali con le case farmaceutiche – avrebbe consentito in partenza di superare qualsiasi vincolo di capacità produttiva che, per le ragioni più varie, avrebbe potuto crearsi in un contesto fortemente aleatorio dal punto di vista delle probabilità di successo (e dei tempi di riuscita) dei diversi tentativi di realizzazione dei vaccini. E avrebbe anche offerto la possibilità di contribuire alla copertura vaccinale delle molte aree del mondo tagliate fuori dalla possibilità di disporre di vaccini propri (essendo del tutto ovvio che un pugno di case farmaceutiche non sarebbe mai stato in grado di produrre miliardi di dosi in pochi mesi).
Va da sé che includere questa strategia all’interno del processo di acquisizione delle dosi necessarie avrebbe reso necessario avviarla parallelamente alla fase di sperimentazione dei (molti) vaccini su cui comunque si è scommesso di investire, in ragione dei (lunghi) tempi necessari a mettere insieme i diversi pezzi di una filiera complessa (massimamente per quanto riguarda la costruzione di bioreattori).
Ora, perché mai a livello degli organismi europei non è stata minimamente presa in considerazione fin dall’inizio una ipotesi così ovvia? Al di là delle possibili spiegazioni di tipo tecnico, c’è un punto chiave che sembra tuttora lasciato a margine della discussione, ed è il tipo di approccio alla “soluzione del problema produttivo” che seguita evidentemente a caratterizzare la visione della Commissione.
L’approccio è – ancora oggi – quello della globalizzazione come strumento di risoluzione di ogni problema, secondo cui quando occorre procurarsi un bene tutto quello che serve è trovare il modo di comprarlo dove attualmente lo si produca. Questa idea del mondo ha trasformato da tempo ogni problema produttivo in un problema commerciale: e non è un caso che gran parte della discussione sul tema dei vaccini sia stata dislocata fin dall’inizio sul terreno dei presunti errori commessi dalla Commissione sul terreno contrattuale, ovvero della negoziazione degli accordi con le diverse case farmaceutiche.
Mentre il cuore del problema è tutto nella rinuncia a costruire in proprio un sistema di produzione che metta insieme, avvalendosi della domanda di un’economia di dimensioni continentali, una montagna di competenze, tecnologie e strutture produttive già esistenti. E non solo in nome della indipendenza produttiva su beni di rilevanza strategica, ma anche e soprattutto in nome dello sviluppo industriale dell’intero continente.
Il principio (ricardiano) della divisione del lavoro cross-country come soluzione “produttiva” efficiente – cui la logica della globalizzazione si ispira – vale in un contesto in cui i singoli sistemi economici non dispongano della domanda che consente di raggiungere a livello nazionale una qualche dimensione efficiente minima. Ma l’Europa Unita costituisce un’area economicamente integrata di 450 milioni di abitanti (UK escluso) che sul piano produttivo è potenzialmente autonoma pressoché in qualunque ambito merceologico – obiettivo che nel caso di beni vitali dovrebbe comunque essere perseguito a prescindere.
E dimenticarsene significa abbandonare completamente il campo a una retorica sovranista che – sempre a corto di argomenti sostanziali – trova nell’incapacità di affermare chiaramente un principio così basilare uno spazio da occupare. Avviare il processo ora, a problemi esplosi e ancora senza una strategia definita a livello continentale – con i singoli paesi ancora una volta incamminati in ordine sparso – comporta dover fare i conti da una posizione di debolezza con strategie altrui già strutturate. Ormai orfani del mantra della concorrenza, il recupero di un orizzonte europeo comune appare ancora lontano.