La Cina è il più grande creditore ufficiale del mondo, ma mancano informazioni e conoscenza sulle modalità di somministrazione e sugli obblighi successivi per coloro che accettano tale credito. Pochissimi i contratti diffusi tra i prestatori cinesi e i governi che li ricevono e manca uno studio approfondito su tale aspetto. Un report ha tentato di sviluppare un’analisi dettagliata sui termini legali e finanziari dei prestiti cinesi all’estero.
La recente pubblicazione del Peterson Institute for International Economics, del Kiel Institute for the World Economy, del Center for Global Development e di AidData ha evidenziato che su cento contratti tra entità statali cinesi e Paesi in via di sviluppo, in Africa, Asia, Europa orientale, America Latina e Oceania, quelle che appaiono chiare sono le clausole di riservatezza che impediscono ai mutuatari di rivelare i termini o persino l’esistenza del debito. I creditori cinesi cercano un vantaggio sugli altri creditori, usando accordi collaterali come i conti delle entrate controllati dal prestatore e le promesse di tenere il debito fuori da ristrutturazioni collettive.
Inoltre, le clausole di cancellazione, accelerazione e stabilizzazione nei contratti cinesi permettono ai creditori di influenzare la politica interna ed estera dei debitori. Anche se questi termini fossero inapplicabili in tribunale, il mix di riservatezza e influenza politica potrebbe limitare le opzioni di gestione della crisi del debitore e complicare la rinegoziazione del debito. Dall’anno 2000 ad oggi, i prestiti della Cina sono divenuti incalcolabili, passando da cifre irrisorie a oltre 700 miliardi di dollari. Non sorprende che Pechino sia ufficialmente il più grande creditore al mondo, il doppio della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale messi insieme.
Dai Balcani alla Bielorussia, dal porto del Pireo alla costruzione di infrastrutture in Liberia, da una diga in Nepal ai finanziamenti logistici in Cambogia, dai centri culturali in Algeria a una ferrovia in Kenya e fino alle opportunità di inserirsi nel mercato portuale di Gibuti. Come ribadito da numerosi istituti, organizzazioni internazionali e dalle analisi degli attivisti del Partito Radicale, i prestiti cinesi non sono inclusi nelle statistiche ufficiali né sono registrati da istituti di sorveglianza multilaterali o da agenzie di rating. Pechino eroga i prestiti direttamente agli appaltatori cinesi presenti in un dato Paese, senza alcun rischio che qualche governo possa spendere in modo erroneo tale patrimonio. L’inganno risiede tutto in tale modalità.
I governi in via di sviluppo si illudono di ricevere ingenti fondi, in realtà ad arricchirsi sono gli appaltatori cinesi all’estero e i debiti ricadono sulle popolazioni locali già martoriate da povertà e fame. Pechino è alle prese con suoi propri problemi finanziari interni dovuti alla guerra dei dazi, alla sovra-produzione e a un debito privato interno che sta sfuggendo al controllo. Di conseguenza, sta posticipando la maggior parte di tutti i nuovi investimenti legati allo sviluppo della Nuova Via della Seta. Tra il 2013 e il 2017, al fine di “comprare” il consenso dei Paesi inclusi nel progetto, aveva prestato almeno 120 miliardi di dollari a più di 60 Paesi in via di sviluppo e, con gli ulteriori prestiti concessi nel 2018 e nel 2019, si stima che il credito cinese verso questi Stati arrivi ad almeno 135 miliardi.
La Cina ha dichiarato che questi prestiti rientrano in un tipo di contratto considerato “preferenziale” e non potranno quindi essere inclusi nel pacchetto di quelli cui sarà concessa la dilazione del pagamento degli interessi. Importante è ricordare che gran parte di questi “investimenti” sono in realtà prestiti finalizzati alla realizzazione di opere pubbliche nei settori delle telecomunicazioni o dei trasporti, Controllo geopolitico e azione di ricapitalizzazione dei problemi finanziari interni a spese delle popolazioni in via di sviluppo di molti Paesi del Sud del mondo.
DOMENICO LETIZIA