di Alessandro De Angelis
C’è poco da stupirsi se, dopo quel che è successo su Roma, come in un gioco del domino, a questo punto la carta Fico su Napoli traballa, anzi è già quasi a terra e anche a Torino ognuno andrà per conto suo, almeno così è al momento. Il Pd celebrerà, come altrove le sue primarie, in un clima in cui, in assenza di uno schema nazionale, riemergono i feroci conflitti di questi anni con l’amministrazione di Chiara Appendino.
Dicevamo, Roberto Fico: il “nome forte” su cui aveva puntato Letta, in cambio di un sostegno al percorso che portava alla candidatura di Zingaretti a Roma. Azzoppata sul nascere la corsa dell’ex segretario, si sono risvegliate le ostilità di un pezzo del Pd, non solo di Vincenzo De Luca. E poi – e non è un dettaglio – c’è un problema di ordine istituzionale. Suona così: ma siamo proprio sicuri che, se Fico si dimette, con questa maionese impazzita si riesce ad eleggere un nuovo presidente della Camera, senza incidenti nello scrutinio a voto segreto? Gli assidui frequentatori del Quirinale già immaginano, preoccupati, che i partiti possano dare sfogo alle proprie ansie di vendetta, perché tutto questo spirito di unità nazionale non si respira nei Palazzi.
E così, per dirne una, Dario Franceschini, che pure gradirebbe, potrebbe essere impallinato da parecchi franchi tiratori, i Cinque stelle non rinuncerebbero a una casella negoziata all’inizio della legislatura, la Lega manifesterebbe tutto il suo sdegno per un uso privatistico delle istituzioni da parte della maggioranza, che usa la terza carica dello Stato per esigenze elettorali, magari chiedendo per sé quel posto e così via. Un pasticcio. Per questo domenica sera Francesco Boccia, l’esploratore dell’alleanza Pd-Cinque Stelle nelle città, ha chiamato l’ex ministro e rettore dell’Università di Napoli Gaetano Manfredi dicendogli di “tenersi pronto”. Sulla carta è un nome su cui, fino ad oggi, i pentastellati non hanno espresso ostilità, ma c’è da verificare cosa accade nel nuovo contesto di sfilacciamento nazionale. Insomma, la confusione è totale.
Roma ha avuto l’effetto di un detonatore che ha fatto riesplodere tutte le contraddizioni di un’alleanza mai nata, tra forze che nei territori sono state radicalmente alternative. E con esse, le fragilità delle due leadership, quella di Letta e quella di Conte, non legittimate da un voto popolare, ma al tempo stesso impegnate a guidare l’operazione più complicata del mondo. Ricapitolando quel che è successo, un caso da manuale di ciò che non si dovrebbe fare: Zingaretti, per accettare, chiede che ci sia un accordo con i Cinque stelle, che prevede un percorso condiviso per arrivare al voto, evitando l’election day con i comuni, e un’alleanza in Regione. Cioè: accetto, ma mi dimetto a settembre. Il presupposto, o meglio l’auspicio, era che Conte potesse offrire garanzie, nell’ambito di un accordo che portava anche Fico a Napoli. Peccato che i Cinque stelle sono un Vietnam in cui l’ex premier conta meno di Ngô Đình Diệm, il presidente del Sud messo lì dagli americani. E né ha potuto dire alcunché sulla Raggi, anzi le ha dovuto assicurare pubblico sostegno, né è riuscito a frenare le ritorsioni dei suoi in Regione che hanno minacciato sfracelli ventilando l’apertura immediata di una crisi di giunta. Morale della favola: messo in campo con un’enfasi non supportata dalle certezze come salvatore della patria Zingaretti, che pure avrebbe potuto tirare dritto e candidarsi comunque davanti alla patria da salvare, ha deciso di rimanere dove è, col risultato che Roberto Gualtieri, magari un ottimo candidato, già si presenta come una seconda scelta.
La memoria del cronista corre a quei momenti della storia in cui i processi venivano governati, come ai tempi del famoso Mugello. Se lo ricorda bene Minniti, che fu accolto dall’insurrezione dei compagni su Tonino Di Pietro. Quando ripartì dalla Toscana, l’ex pm era candidato, fu eletto e l’alleanza durò più di dieci anni. Diciamoci la verità: non sono passati neanche due mesi, e tutti i nodi irrisolti e rimossi dietro l’elezione all’unanimità di Letta, sono riemersi. A partire dal nodo più grande, quell’asse strategico con i Cinque stelle che, come provi ad afferrarlo, scivola di mano perché, come racconta la vicenda di Roma in cui alla fine si allineano con la Raggi anche quelli che la pensano all’opposto, sono una conventicola in cui il potere prevale oltre ogni ragionamento, in questo senso davvero ben oltre la destra e la sinistra, tecnicamente con se stessi. Come ai tempi del governo, in cui il Pd scambiava stabilità con la subalternità e con la rinuncia alla “discontinuità”, l’alleanza funziona solo se il Pd porge l’altra guancia, altrimenti ognuno fa per se. Dopo quasi due anni di chiacchiere sul nuovo centrosinistra, sul “punto di riferimento dei progressisti europei”, sulla coalizione – insomma, il bettinismo – la battaglia comune forse si farà solo a Napoli. E l’ombra sinistra di questo passato, e dei suoi insuccessi, già si allunga su Enrico Letta che non ha ancora prodotto un significativo cambio di linea e alle amministrative si gioca quella legittimazione popolare che al momento non ha.