Gente d'Italia

Con la cultura non si mangia?​ Ma senza si muore…

di Giuseppe Melillo

 

Nessuno può chiamarsi fuori, soprattutto oggi. Stiamo vivendo uno di quei periodi in cui non è la crisi della cultura a incidere sui processi e comportamenti ma, peggio, è il tradimento della cultura per mano dei suoi protagonisti: gli intellettuali.

 

Un tradimento del loro compito e funzione all’interno delle comunità e dei processi della vita collettiva. Si sono smessi i panni scomodi di mediatori sociali, si ha timore di usare la parola contraria, si rincorrono ruoli di esperti, consulenti, influencer.

 

La cultura diventa eventificio e i luoghi subiscono il processo di disneylandizzazione. Luoghi in cui avviene uno scollamento della realtà e che si rianimano per un mese dopo undici di coma. Si costruiscono narrazioni, giungendo a negare la realtà, infilando retorica.

 

E le voci fuori dal coro, quelle che guardano fuori dalla finestra e non nello specchio, quelle che indicano le distorsioni, vengono emarginate perché scomode, irritanti, moleste. Tanti, troppi i paesi dove non esistono librerie, biblioteche, edicole, spazi di aggregazione culturale e di confronto, dove l’unico spazio di aggregazione strutturato che ancora resiste è quello della Chiesa.

 

È un fenomeno che colpisce solo i piccoli paesi ma in diverse forme anche i centri più grandi. Emblematico è il caso​ Matera, capitale europea della cultura 2019, città senza teatro ma luogo per eccellenza di fiction. Luogo in cui si è coltivato rumore sottraendolo al silenzio denso monastico e rurale, sottraendo e non aggiungendo valore.

 

Spesso in assenza di confronto sulla realtà e ci si è rifugiati alla ricerca di una identità ideale. Ogni paese, città, finanche contrada, si è messo alla ricerca di un padre nobile, di un antenato famoso. Chi aveva il compito di animare le comunità ha scelto di mettersi al servizio di qualcosa di minimo, falsando di fatto il ruolo di guida, di dibattito, di confronto e tradendo la parola stessa come pensiero forte, di visione, di dichiarazione della realtà.

 

Gli intellettuali sono diventati manager 3.0 con azioni imperniate sulla comunicazione. Il dialogatore, creatore di spazi di relazione, di confronto e di critica, scompare dalla geografia umana dei paesi e con lui il sistema di scambio e di “economia delle esperienze”. Gli subentra il “comunicatore” che è il nuovo vate e sciamano.

 

​ La cultura ha subito una involuzione e suoi protagonisti ne hanno accompagnato il declino mascherando ogni sussulto come una nuova e diversa rivoluzione. Un nodo mai semplice da sciogliere è la capacità di far interagire il patrimonio culturale e la produzione di reddito. Una cultura che sia datore di lavoro senza smettere di essere un datore di valore.

 

Su questo campo dovrebbe intervenire una buona governance pubblica, orientando i fondi pubblici verso azioni che sappiano far interagire la valorizzazione/tutela e reddito avendo come stella polare il bene comune di un territorio e delle sue specificità.

 

Una consuetudine, invece, appare quella di distribuire fondi attraverso criteri che non guardino al merito e nemmeno alla razionalità quantitativa e qualitativa.​ Facendo un lavoro di memoria e confrontando i tempi il pensiero va alla grande crisi del 1929 negli USA. Roosevelt applicò le teorie keynesiane dell’intervento pubblico finanziando scuole, editoria, gallerie, catalogazione di archivi, e sovvenzionando scrittori, artisti, musicisti e attori.

 

Con queste azioni gli Stati Uniti superarono la crisi e determinarono la cultura nei tempi seguenti. In molti centri più interni o perifierici non si ha la portata numerica per poter aspirare ad avere una tale produzione di capitale culturale e intellettuale ma ciò non può essere un alibi per distrarre fondi dalla cultura.

 

Un’azione del genere può contribuire a ridare forma all’identità territoriale e produrre una diversa consapevolezza di sé, del proprio territorio e di una nuova idea di futuro. Creare consapevolezza, costa più fatica che sedurre con specchietti e perline, e soprattutto rischia di moltiplicare le voci critiche e ridare forza alle voci silenziate.​

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