Di Mauro Berruto*
Le cose uno non le capisce finché non le guarda da un altro punto di vista e nel corso della mia carriera sono stato sottoposto a un continuo cambio del punto di vista, essendo stato un italiano all'estero per oltre nove anni.
La mia professione di allenatore di pallavolo mi ha portato per tre anni in Grecia e poi per sei, bellissimi e lunghi anni, in Finlandia. Certamente ero un italiano all'estero privilegiato, lì per fare il mestiere che adoravo, in condizioni ottimali. Ed ero un italiano all'estero per, più o meno, sei mesi all'anno, perché nella parte restante dell'anno tornavo nella mia Torino. Tuttavia quelle esperienze hanno modificato il mio modo di vedere l'Italia e il mio modo di vedere i nostri connazionali nel mondo sperimentando, pur nella mia condizione privilegiata, anche un po' di quegli stereotipi che talvolta viaggiano attaccati al nostro passaporto o alle nostre origini. Successivamente ho avuto la fortuna e il privilegio di allenare per cinque stagioni la nostra nazionale maschile, di portare in Italia sette medaglie in importanti manifestazioni internazionali, compresa una splendida medaglia olimpica ai Giochi di Londra 2012.
Le medaglie sono ricordi indimenticabili, ma emozioni di un'intensità inimmaginabile della mia carriera sono legate ai momenti in cui la squadra nazionale di pallavolo di cui ero CT incontrava i nostri connazionali all'estero. Dall'Australia al Brasile, dall'Argentina all'Egitto, dal Giappone all'Iran, dalla Korea al Canada, ogni volta era non solo una festa, ma un evento che nessuno avrebbe più dimenticato. Né noi, né loro. Nel 2014, in occasione di una partita della World League che la nostra nazionale disputò contro i padroni di casa brasiliani a Jaraguà du Sul, ci trovammo di fronte a una marea di tifosi, più di diecimila, tutti vestiti di giallo con un unico puntino blu: un signore che si era presentato lì, da solo, con la maglia della nostra nazionale di calcio e il tricolore in mano. Se ci penso mi viene ancora la pelle d'oca.
Non è dunque da politico, da addetto ai lavori o da semplice osservatore del mondo dello sport che voglio esprimere il mio pensiero sulla notizia della chiusura di una storica trasmissione sportiva di Rai Italia, l'emittente del nostro servizio pubblico che raggiunge oltre 50 milioni di nostri connazionali nel mondo. La trasmissione in oggetto, lo avrete intuito, è "La giostra dei gol" e dal 1977 raccontava ai nostri connazionali residenti in quattro continenti, il campionato di calcio di serie A attraverso il classico dibattito da studio e le immagini delle partite.
Voglio piuttosto commentare questa notizia immergendomi di nuovo in quei quattordici anni passati da italiano all'estero e da italiano che portava all'estero la nostra nazionale. Un fatto di pelle e di pancia, non solo di testa.
"Gente d'Italia", che oggi ospita le mie riflessioni, ha il merito indiscutibile di aver acceso una grande luce su questa faccenda e il lavoro del Direttore, e dei giornalisti che stanno raccontando questo paradosso, è encomiabile. Oltre ad essere romanticamente e testardamente ineccepibile, vorrei tantissimo che potesse portare anche a un risultato concreto. "Come posso aiutare?" mi chiedo, se questo quotidiano ha giù ospitato per filo e per segno le ragioni e le responsabilità delle parti. Ha scandagliato le opinioni dei protagonisti e, naturalmente, anche di coloro che questa scelta la subiranno. Che cosa aggiungere, dunque? Beh, aggiungo una cosa che mi permetto di dire da uomo di sport e da persona che, con emozione e orgoglio, ha visto sventolare il nostro tricolore nei palazzetti di tutto il mondo: questa faccenda non può essere risolta soltanto con un approccio fondato sui costi e sui ricavi, perché va evidentemente oltre alla semplice privazione di uno spettacolo sportivo. Rappresenta un taglio netto di un legame storico con un pezzo enorme del nostro Paese e che nel mondo ci rappresenta e vuole tenere viva una relazione culturale e linguistica con la nostra nazione. Sarebbe opportuno riavvolgere il nastro e trovare una soluzione, dialogando certo con esperti di budget, ma anche con con chi possa leggere questa situazione (e i cambiamenti che innescherebbe) da un punto di vista psicologico, sociologico, antropologico.
Non è in ballo "soltanto" il calcio. È in ballo una relazione diretta con il nostro Paese, è in ballo il sentirsi parte di una comunità, è in ballo la possibilità, magari proprio grazie allo sport, di accedere agli altri programmi generalisti e di informazione che riguardano la vita stessa del nostro Paese.
Allora sì, il tema diventa politico. Perché è la politica che deve vegliare sul rispetto e sulla garanzia di certi valori. Non posso accettare la risposta che, in questo caso, valga soltanto il peso specifico del miglior offerente. Questo senso di appartenenza, questo legame non si può comprare e non deve essere in vendita. Mi auguro (e per questo da ormai una decina di giorni mi sto adoperando con tutto il gruppo parlamentare del Partito Democratico) che tutti i soggetti in causa possano risedersi intorno a un tavolo e trovare una soluzione.
Ne va, davvero, del nostro modo di vivere un legame che deve continuare ad essere forte. È una storia di saldezza di radici, di legami linguistici e culturali che non vogliamo che ci scivolino via dalle mani come quei fili di lana che i nostri emigranti, sul ponte dei piroscafi che partivano, tenevano in mano, lasciando l'altro capo a un parente o a un amico sulla banchina del porto. Man mano che la nave si allontanava quei fili scivolavano via dalle rispettive mani, fino a cadere inesorabilmente in mare, in uno struggente silenzio.
Questa volta, no. Facciamo rumore.
*Mauro Berruto
CT nazionale italiana maschile di pallavolo (2010-2015), medaglia di bronzo olimpica (Londra 2012) e Responsabile Sport del Partito Democratico.