L’anno scorso, secondo i numeri di Federacciai, l’Italia ha prodotto 20 milioni di tonnellate di acciaio. Di queste fanno capo all’Ilva una parte residuale, circa tre milioni, il 15%. Un crollo vertiginoso visto che solo otto anni fa dagli altiforni dell’acciaieria pugliese venivano sfornate circa nove milioni di tonnellate all’anno. Il risultato? L’Italia, seconda manifattura in Europa e con un giro d’affari strettamente connesso alla siderurgia per oltre sessanta miliardi di euro già l’anno scorso ha pagato un deficit di un milione di tonnellate. In altre parole ha importato più acciaio di quanto ne abbia esportato, un trend che rischia ora di accentuarsi se le crisi industriali di Taranto e Piombino non si risolveranno alla svelta.
“Non c’è molto da girarci attorno: l’acciaio serve ma o si produce o si importa”, dice all’HuffPost Gianclaudio Torlizzi, esperto del mercato di materie prime e direttore generale della società di consulenza finanziaria T-Commodity. “E a noi serve produrlo, non certo importarlo”. Perché se c’è una ‘lezione’ che la pandemia ha fornito al mondo sta nell’aver mostrato tutta la fragilità delle catene di fornitura globali. “Senza la filiera dell’acciaio gli effetti si vedranno anche sulle altre catene produttive”, prosegue Torlizzi. “Chi crede che si può lasciarlo produrre agli asiatici, anche affidandosi al fatto che hanno standard diversi sulle emissioni, si sbaglia. Oggi, e l’abbiamo visto con la pandemia, abbiamo problemi costanti di supply chain (le catene di fornitura, ndr), con colli di bottiglia sempre più diffusi”.
I noli dei container ne sono la prova più eclatante: oggi, secondo l’indice del trasporto container di Dwery, il costo per trasportare un contenitore sulla rotta Asia-Europa ha sfondato il muro dei 10mila dollari, con l’indice composito mondiale per container arrivato a superare i seimila dollari. Anche qui, la ragione è grossomodo la stessa: la penuria di contenitori - unita a pratiche discutibili messe in atto dalle grandi compagnie di navigazione - ha fatto schizzare verso l’alto i costi.
Le catene di fornitura sono esposte a rischi sempre maggiori, non solo fisici, anche digitali. Lunedì tutti gli impianti americani di Jbs, il maggiore produttore di carne al mondo, sono stati costretti a chiudere in seguito a un attacco hacker - secondo gli Usa di matrice russa - che ha bloccato per un giorno la produzione negli stabilimenti dai quali deriva circa un terzo delle forniture americane di carne. Per non parlare dell’attacco informatico all’oleodotto Usa che rifornisce la East Cost americana che ha fatto seriamente temere per le forniture di carburante. “Oggi dalle catene di approvvigionamento passano gli interessi strategici dei Paesi, anzi oggi lo scontro di interessi geopolitici si misura proprio su logistica e supply chain”, spiega Torlizzi.
La disruption nelle catene di fornitura può avere effetti diversi sull’economia reale. In questi giorni, ad esempio, in Italia si fanno i conti con gli allarmi lanciati dai produttori di barattoli di latta per le conserve: “I barattoli in acciaio rappresentano il principale packaging sia per i legumi che per i derivati del pomodoro (circa i 2/3 della produzione è conservata in questo tipo di imballaggio). Pertanto, le difficoltà di approvvigionamento dell’acciaio che stanno interessando l’industria manifatturiera italiana rischiano di ripercuotersi sulla produzione di scatole e quindi anche sul comparto conserviero”, ha detto all’Adnkronos il presidente di Anicav De Angelis.
“Questo delle lattine è solo un esempio. Lei crede che se oggi ordina un infisso in alluminio, domani glielo consegnano?”, chiede Torlizzi. Ritardi e interruzioni lungo le catene di fornitura si possono trasferire rapidamente a interi comparti produttivi. “Per questo e per altre ragioni la seconda manifattura in Europa non può permettersi di legare il futuro di un settore fondamentale come il siderurgico a una sentenza”. Già oggi la produzione dell’Ilva è ai minimi storici, e l’accordo tra ArcelorMittal e Stato italiano per il rilancio dell’impianto potrà funzionare solo in caso di sentenza favorevole del Consiglio di Stato, come ha recentemente chiarito anche il ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.
Ma l’Ilva non è l’unica acciaieria in difficoltà, anche alla Liberty Magona di Piombino si teme lo stop alla produzione. Secondo i sindacati il gruppo indiano proprietario dello stabilimento piombinese è entrato in crisi di liquidità a seguito della messa in amministrazione controllata della gamba finanziaria Greensill Capital, ma “il colpo di grazia e il rischio di un fermo totale delle produzioni, il cui rallentamento è già in atto, è dovuto al mancato approvvigionamento di semiprodotto, coils a caldo, da parte di Arcelor Mittal, che pretestuosamente, a nostro sapere, lamenta un’insolvenza da parte di uno stabilimento diverso, appartenente al gruppo Liberty, sebbene Magona abbia sempre onorato i propri debiti e sia nelle condizioni di farlo pagando il semiprodotto alla consegna”.
La via italiana dell’acciaio è lastricata di sentenze e crisi aziendali. Ma solo una volta che tutte le ombre, soprattutto quelle giudiziarie, si saranno dipanate si saprà quale sorte attende un pezzo importante della siderurgia italiana. Chi per ora sta correndo ai ripari, e con idee chiare, è invece la Cina anche perché da sola assorbe la metà della produzione mondiale della lega di ferro e carbonio: “Pechino sta perseguendo una politica autarchica per contenerne i costi e porre rimedio alla sua carenza nel tentativo di bloccare la spirale inflazionistica. Sta insomma cercando da un paio di mesi di conservare le sue materie prime, l’acciaio in primis, all’interno della sua economia, ampliando l’offerta domestica. Dai primi segnali, ci sta riuscendo: lo spread tra il prezzo dell’acciaio in Cina e quello in Europa si sta allargando”.
Bruxelles, dal canto suo, sembra invece andare in direzione completamente opposta: la Commissione appare infatti intenzionata a prorogare le misure di salvaguardia sulle importazioni di acciaio da Paesi extra Ue, una sorta di “dazio” del 25% su alcuni prodotti dell’acciaio importati oltre una quota prestabilita. “Questo ‘muro’ è comprensibile in condizioni normali se serve ad arginare il dumping asiatico, ma in una situazione come quella attuale genera ulteriori tensioni sui prezzi”. D’altronde il mercato europeo veleggia verso un deficit di circa 15/20 milioni di tonnellate.
“Abbiamo fatto presente, poiché è un fatto che riguarda tutta l’economia e non soltanto noi, che forse la sospensione dei dazi sull’importazione in momento in cui c’è penuria di acciaio, è importante perché è la materia prima che più consumiamo”, ha detto pochi giorni fa l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono. La penuria fa “aumentare i prezzi”, un elemento che “le autorità devono prendere in considerazione, ci può danneggiare”.
Non è finita: il boom dei prezzi delle materie prime, spiega ancora Torlizzi, avrà ripercussioni anche sugli altisonanti piani previsti all’interno del Recovery Fund. Perché quei progetti, vidimati dalla Commissione Europea e inseriti nel Pnrr, “sono tagliati sui prezzi delle materie prime del 2020. Ma nel 2021 stiamo assistendo a un incremento generalizzato per le commodities che si ripercuoterà anche a valle, col rischio che diversi interventi, come per fare un esempio il Superbonus per le ristrutturazioni edilizie, possano incontrare enormi problemi una volta che si sarà passati nella fase dell’implementazione”.