di Judith Bergman (*)
Nel 2020, la Cina comunista, ha costruito una nuova capacità di produzione di energia a carbone tre volte superiore a quella di tutti gli altri Paesi del mondo messi insieme, l’equivalente di più di quanto produce a settimana una grande centrale a carbone, secondo un rapporto pubblicato ad aprile da Global Energy Monitor.
Sempre nel 2020, le emissioni di CO2 della Cina sono aumentate dell’1,5 per cento mentre quelle della maggior parte degli altri Paesi sono diminuite. Sebbene, nel 2020, il mondo ha abbandonato il carbone nella produzione energetica, questo processo di dismissione dal carbone è stato eclissato dalle nuove centrali a carbone della Cina.
Anche prima che la Cina costruisse quei nuovi impianti, era già il più grande emettitore al mondo di anidride carbonica (CO2) da combustibili fossili. Nel 2019, la Cina era responsabile di quasi il 30 per cento delle emissioni di CO2, circa il doppio della quantità emessa dagli Stati Uniti, allora il secondo emettitore più grande. La Cina, il principale consumatore di carbone del pianeta ha già la maggiore concentrazione di centrali a carbone a livello globale. Nel 2020, ha prodotto 3,84 miliardi di tonnellate di carbone, la sua produzione più alta dal 2015. Inoltre, Pechino, nel 2020, ha importato 304 milioni di tonnellate di carbone, segnando un aumento di 4 milioni di tonnellate dal 2019.
Secondo l’International Energy Agency, “nel 2018, in Cina, il 79,7 per cento delle emissioni erano prodotte dalle centrali a carbone rispetto al 70,6 per cento delle emissioni prodotte in India, al 25,8 per cento negli Stati Uniti e al 27,9 per cento nell’Unione Europea” e “dal 2011, Pechino ha consumato più carbone rispetto al resto del mondo messo insieme”.
Nonostante sia il principale inquinatore climatico al mondo, la Cina continua a lanciare segnali di virtù, pubblicizzando falsamente se stessa come la paladina dell’ambiente. “Dobbiamo proteggere la natura e preservare l’ambiente come proteggiamo i nostri occhi e sforzarci di promuovere una nuova relazione in cui l’uomo e la natura possano entrambi prosperare e vivere in armonia”, ha affermato Xi Jinping al recente Vertice dei leader mondiali sul clima ospitato dal presidente americano Joe Biden.
In realtà, tuttavia, il Partito Comunista Cinese (Pcc) ha fatto l’esatto opposto di preservare l’ambiente. In un articolo pubblicato dalla Yale School of Environment nel 2017, il professor William Laurance scrisse: “Non ho mai visto una nazione avere un impatto così schiacciante sulla terra come la Cina adesso. In tutto il mondo, in quasi tutti i continenti, la Cina è coinvolta in una vorticosa varietà di progetti di estrazione di risorse, energetici, agricoli e infrastrutturali – strade, ferrovie, dighe idroelettriche, miniere – che stanno causando danni senza precedenti agli ecosistemi e alla biodiversità”.
L’articolo citava un’analisi della Banca Mondiale di quasi 3mila progetti, secondo la quale: “Gli investitori e le società cinesi straniere spesso predominano nelle nazioni più povere con normative e controlli ambientali deboli, facendo sì che quelle nazioni diventino ‘paradisi dell’inquinamento’ per le imprese cinesi”.
Inoltre, Laurance scrisse: “La Cina è stata a lungo un buco nero per il commercio illegale di animali selvatici, il più grande consumatore globale di tutto, dai pangolini, alle parti di tigre, alle pinne di squalo e al corno di rinoceronte (...) La Cina è un forte consumatore di legname illegale, nonostante abbia tardivamente adottato misure per arrestare il flusso nei suoi mercati. In Africa occidentale, foreste di palissandro vengono illegalmente deforestate, quasi esclusivamente per alimentare la forte domanda in Cina. Gli impatti sono ancora più pesanti in tutta la regione Asia-Pacifico, dove le foreste dalla Siberia alle Isole Salomone vengono sfruttate eccessivamente per alimentare i mercati cinesi del legname”.
Tuttavia, al vertice, Xi ha fatto sembrare che la Cina stesse aspettando che gli Stati Uniti rientrassero nell’Accordo di Parigi. “La Cina accoglie con favore il rientro degli Stati Uniti nel processo di governance climatica multilaterale”, ha affermato Xi, aggiungendo: “I Paesi sviluppati devono aumentare l’ambizione e l’azione per il clima (...) devono compiere sforzi concreti per aiutare i Paesi in via di sviluppo a rafforzare la capacità e la resilienza contro i cambiamenti climatici, sostenerli finanziariamente, tecnologicamente e rafforzandone le capacità (...) in modo da aiutare i Paesi in via di sviluppo ad accelerare la transizione verso un sistema economico di sviluppo verde e a basse emissioni di carbonio”.
Il governo cinese, a quanto pare, cerca di evitare di assumersi le proprie responsabilità in materia di emissioni continuando a definirsi apertamente un’economia in via di sviluppo – “bisognosa di aiuto” – sebbene la Cina sia attualmente la seconda economia più grande del mondo dopo gli Stati Uniti.
Ogni Paese firmatario dell’Accordo di Parigi, ha presentato un obiettivo – un contributo determinato a livello nazionale (Ndc) – per ridurre le emissioni di carbonio entro il 2030. La Cina, invece, ha avuto un permesso per aumentare le emissioni fino al 2030, quando dovrebbe raggiungere il picco. Ma questo picco sarebbe indice del fatto che il Paese sta ”generando enormi quantità [di] CO2: da 12.900 a 14.700 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno per i prossimi dieci anni, o fino al 15 per cento all’anno sopra i livelli del 2015”.
Al vertice, Xi ha ribadito una precedente promessa di raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio prima del 2060 e di “limitare rigorosamente l’aumento del consumo di carbone durante il periodo del 14° piano quinquennale (2021-2025) e ridurlo gradualmente nel periodo del 15° piano quinquennale”. In particolare, Xi non ha menzionato affatto la diminuzione del consumo di carbone nei prossimi cinque anni: ha semplicemente parlato di limitarne l’aumento.
Se la Cina fosse seriamente intenzionata a ridurre le emissioni, quell’intento sarebbe stato palese nel suo nuovo piano quinquennale per gli anni 2021-2025, diffuso a marzo. Ma questo piano è stato definito come contenente “poco più che vaghi impegni per contrastare le emissioni di anidride carbonica”.
“Secondo il piano, le emissioni della Cina continueranno ad aumentare”, ha affermato il dottor Zhang Shuwei, capo economista del Draworld Environment Research Center.
“Nel complesso, il piano non contiene dettagli sufficienti su come la Cina intende accelerare la decarbonizzazione dell’economia, né offre molte indicazioni strategiche su come raggiungere il picco di emissioni di carbonio prima del 2030 e raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2060”.
Al contrario, gli Stati Uniti, sotto l’ex presidente Barack Obama, si erano impegnati a ridurre entro il 2025 le emissioni di CO2 dal 26 per cento al 28 per cento rispetto ai livelli del 2005. Il presidente Biden, che in uno dei suoi primi ordini esecutivi firmati dopo essere entrato in carica a gennaio ha disposto il rientro degli Stati Uniti nell’Accordo di Parigi, ha promesso al recente vertice che gli Stati Uniti ridurrebbero le emissioni di anidride carbonica di almeno il 50 per cento entro il 2030.
Come ha scritto il Wall Street Journal in un editoriale di febbraio, iniziative come questa spiegano perché “Pechino ama Biden e Parigi”. Consentono alla Cina, nelle parole dell’editoriale, di ottenere “una corsa gratuita al carbonio”, ovvero una crescita economica senza restrizioni in un momento in cui la Cina sta cercando di diventare la potenza economica e tecnologica dominante del mondo.
È estremamente improbabile che la Cina mantenga i suoi impegni sul clima e ci sono abbastanza precedenti per dimostrare che non ci si può fidare degli impegni del PCC. Nel 1984, la Cina promise che l’autonomia di Hong Kong, inclusi i suoi diritti e le sue libertà, sarebbe rimasta invariata per 50 anni in base al principio “un Paese, due sistemi” dopo il ritorno nel 1997 alla sovranità cinese. A giugno 2020, tuttavia, quando la Cina ha introdotto la sua ferrea legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, la Cina ha rinnegato la sua promessa e il Pcc continua a schiacciare Hong Kong.
La Cina non ha nemmeno tenuto fede al suo impegno del 2015 di non militarizzare le isole artificiali che Pechino ha costruito nella catena delle Isole Spratly nel Mar Cinese Meridionale e non ha mai onorato almeno nove degli impegni presi quando è entrata a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, per citare solo alcuni casi.
L’elenco delle promesse infrante non include nemmeno le menzogne che la Cina ha detto al mondo sulla presunta non trasmissibilità del Coronavirus, che ha avuto origine a Wuhan e ha finora causato la morte di più di tre milioni di vite e devastato innumerevoli economie.
Secondo uno studio commissionato nel 2017 dall’American Council for Capital Formation con il sostegno dell’U.S. Chamber of Commerce Institute for 21st Century Energy, soddisfare gli impegni assunti da Obama nell’Accordo sul clima di Parigi sarebbe potuto ”costare all’economia statunitense 3 miliardi di dollari e 6,5 milioni di posti di lavoro nel settore industriale entro il 2040”. Il modello utilizzato nello studio includeva i “benefici calcolati dalla creazione e dalla gestione di progetti di energia rinnovabile. Tuttavia, nel modello, questi vantaggi economici erano controbilanciati da un aumento dei costi”. Quanto costerà effettivamente l’adempimento degli impegni assunti da presidente Biden sul clima, per chi l’accordo avrà un beneficio effettivo e quale ulteriore vantaggio darà in realtà alla Cina?
In un momento in cui la Cina sta dicendo una cosa e ne sta facendo un’altra, e non soddisfa palesemente la sua parte di impegni mondiali per la riduzione delle emissioni di CO2 – come dovrebbe fare la seconda economia mondiale – aumentare gli impegni dell’America sul clima invia tutti segnali sbagliati. Ciò che la Cina e gli altri vedono è che indipendentemente da ciò che Pechino fa – anche se inganna il mondo e persegue il suo comportamento predatorio – gli Stati Uniti sono disposti a ridurre la propria competitività, lasciando alla Cina uno spesso tappeto rosso per diventare la superpotenza dominante del mondo, esattamente il ruolo a cui aspira.