C’è da osservare che da diversi giorni l’argomento principale di discussione sulla vicenda della povera Saman, la ragazza quasi certamente uccisa dai familiari perché si era ribellata a regole che ledevano i suoi diritti civili e la sua libertà, è “come mai non si parla della povera Saman?”. Cosa quantomeno bizzarra, vista la quantità (e talora qualità) dei commenti, delle articolesse, dei post sui social che parlano di lei, della sua vita ferocemente annientata. Il punto semmai è un altro. La vicenda – tragica e crudele – di Saman mette in crisi troppi cliché, chiama in causa troppi distinguo nel nostro panorama mentale e mediatico dominato dal manicheismo semplificatore.
E’ un chiaro femminicidio, ma viene definito così prevalentemente da chi avversa la definizione stessa di femminicidio (e la necessità di una sua specifica sanzione).
E’ una chiara violazione dei diritti umani di Saman in quanto donna, esattamente la cosa contro cui lottano – da anni – le femministe, prima e più ancora che gli attivisti dei diritti civili, di tutto il pianeta, ma viene definita così per lo più da chi se ne serve per attaccare “le femministe”, ree di avere taciuto, secondo le destre (che poi sono le uniche a credere che “femministe” sia un’etichetta dispregiativa da usare con sufficienza: magari non è chiaro che è solo grazie alle generose lotte di generazioni e generazioni di femministe se ora le senatrici e deputate di destra sono senatrici e deputate, votano, scelgono, possono pure essere leader di un partito...) (paradosso: tanti simpatizzanti di quel partito si definiscono “nostalgici”: di un mondo in cui le donne avevano un solo compito, fare figli per la patria).
E’ un evidente nodo doloroso nella dolorosa questione dell’ “integrazione”, argomento che viene di norma ignorato o strumentalizzato, da taluni per paura che chiamare in causa le “differenze culturali” suoni come chiusura, da taluni altri perché le “differenze culturali” possano giustificare ogni chiusura. Corollario di questo punto: la facilissima contrapposizione tra la foto di Saman “come la voleva la famiglia” e di Saman come voleva se stessa, e la pretesa di esaurire, in quelle due foto, l’intero tema del confronto di mondi, civiltà, religioni, sentimenti.
Al fondo di tutto, poi, dove nessun discorso pubblico arriva – per ignavia o per dolo – c’è una vicenda umana di rara tristezza e solitudine, che ricorda tante vicende umane di donne – anche italiane, anche nostre contemporanee – lasciate sole coi loro peggiori incubi sotto forma di congiunti e amati dalla mano armata. C’è una giovane donna vessata e terrorizzata che, pure, segue docile la madre, con lo zainetto in spalla, convinta di averla scampata: e quel confine, tra chi deve proteggerti e invece ti tradisce e ti uccide, quel confine grigio dove si perdono tante donne, è il vero confine invalicabile, non quelli – fittizi – che inventiamo tra le patrie, i Paesi, le ideologie, le religioni.
Troppe cose in una sola storia, che diventa difficile da maneggiare per i maneggioni del discorso pubblico, per i propagandisti di mestiere – che dunque preferiscono solo ululare che “è silenziata” dai “buonisti amici degli islamici brutti e cattivi” - ma non per questo è una storia destinata al silenzio. Chi ha cuore, mente, interesse vero agli ultimi della Terra – e le donne lo sono dappertutto, e in taluni luoghi di più – non dimenticherà Saman Abbas.