La gente comune, quella che attende una cassa integrazione che non arriva o un lavoro che non c'è, ancora non se n'è accorta. Ma, toccato il fondo, la ripresa è cominciata. Almeno, così, dicono il governatore di BankItalia, Visco che annuncia una crescita del Pil 2021, al 4/5%; il premier Draghi che fa approvare il dl per l'assunzione di ben 24.103 superesperti in 4 anni a supporto della realizzazione del Pnrr (ma a tempo determinato, dopo che faranno?); i politici della grande ammucchiata di lite e di governo; l'Ue e i luminari delle statistiche, quelli, cioè, che dividono il totale per tutti e poi sentenziano che di quel totale ciascuno ha avuto la stessa fetta. Anche se qualcuno se n'è portate a casa due o più e tantissimi altri, nessuna. Gente, insomma, capace di vedere lungo e lontano. E se lo assicurano loro, bisogna crederci. Anche se, non sempre “c'azzeccano”. Fatto è che esprimono speranze, per accreditare la bontà e la giustezza del proprio operato, non certezze assolute, legate alla realtà. Non potrebbero. Tanto più che, al momento, non è tutt'oro quello che luccica.
Anzi, mentre assicurano una crescita del pil 2021 al 4/5%, questo nel primo trimestre 2021 si è fermato soltanto al +0,1 rispetto al trimestre precedente ed addirittura al -0,8% in confronto allo stesso periodo 2020; l'occupazione, dicono, è aumentata di 120mila unità, ma dimenticano che sono state 230mila quelle perdute nello stesso periodo 2020 e 870mila sacrificate nell'intero 2020. Sicché, il Pil è effettivamente ripartito più forte del previsto, ma in arretramento rispetto al 2020. Di più, al momento si tratta – e non poteva essere che così, visto che le riaperture post covid che solo adesso cominciano a prendere corpo – di una ripartenza, senza lavoro, visto che l'occupazione è ancora ferma. E nel Sud l'asticella del livello occupazionale è ferma ai 6 milioni e poco più del 1992. Quindi la strada per arrivare al traguardo auspicato da Visco, Draghi e compagnia è ancora lunga, sconnessa e tortuosa. Certo, stavolta dovrebbe andar meglio. Potrebbe aiutare il Recovery Fund di cui, però, da un anno si continua a parlare ma è tuttora una sorta di araba fenice: “che ci sia ognun lo dice”, dove sia (e quanto ci costerà) nessun lo sa”. Che dire, “se son rose fioriranno”.
E non dimentichiamo i “pacchi” che l'Ue sta cercando di confezionarci in termini di nuove imposte (vedi il digitale e il Co2), nonché, i continui e costanti attacchi alla nostra intera filiera agricola, alla dieta mediterranea, con la mannaia del Nutri-score, e le nostre eccellenze produttive, fra cui l'eliminazione, dal tre luglio prossimo, della plastica, settore in cui l'Italia primeggia con il 35% della produzione continentale. E “dulcis in fundo” l'invito “rigorista” di sbloccare immediatamente i licenziamenti. Una mina in più sotto la poltrona di Draghi. Tanto più alla luce degli eventi succedutisi lunedì scorso (la sentenza di condanna in primo grado dei Riva, di Vendola e il sequestro degli impianti dell'ex Ilva di Taranto; l'acquisizione per 8 miliardi (2,4 dei quali finiranno direttamente ai Benetton) di Aspi da parte di una Newco il cui 51% è nelle mani di CDP, nonché la lottizzazione delle nomine dei vertici delle partecipate pubbliche e l'assunzione sprint a tempo determinato con “concorso rapido” (un solo orale) dei primi 500 dei 24mila supertecnici di cui sopra potrebbero segnare l'avvio di un cammino a ritroso che rischia di riportarci ai (ne)fasti dello “Stato padrone”.
Un ritorno all'indietro agli anni post miracolo economico che riaprirebbe la strada al prepotente ritorno dello Stato - e, quindi, di partiti e sindacati - nella gestione diretta delle aziende con spreco di denaro pubblico e a tutto danno dei contribuenti. Del resto, c'è poco di che sorprendersi. Visto che questo ritorno è già cominciato da qualche tempo con l'Alitalia che da settembre in poi - se arriverà il definitivo via libero della Commissione Ue - si chiamerà Ati, di Atac, Ilva, Of e la discesa in campo del braccio armato della finanza pubblica, Cassa Depositi e Prestiti e l'Iri del terzo millennio, Invitalia. Un “deja vu” da scongiurare.
MIMMO DELLA CORTE