C’è chi la fa semplice sulla pelle di Conte. “Se ti metti in proprio”, gli sussurrano i presunti amici, “come minimo prenderai il 10, anzi il 15, forse addirittura il 20 per cento rastrellando voti di qua e di là, centrodestra compreso”. Morale: che cosa aspetta l’Avvocato del popolo? Perché indugia nelle mediazioni con Grillo anziché mandarcelo direttamente? Tutte domande di chi non sa cosa voglia dire creare un partito, e nemmeno immagina in quali grane Giuseppe si andrebbe a ficcare. Lui invece se ne rende conto; e a sentire chi gli sta intorno, lanciare una ditta politica non è prospettiva che lo faccia impazzire. Mille volte, potendo, preferirebbe sedersi a un tavolo già apparecchiato. Mettiamoci nei suoi panni per capire perché, iniziando dagli aspetti nobili.
A un nuovo partito occorre anzitutto un programma, accompagnato da qualche ricetta che susciti l’interesse. Quale sarebbero programma e menù di Conte, finora a nessuno è dato sapere. Non per colpa sua, sia chiaro: da premier l’uomo aveva dovuto barcamenarsi, prima tra Cinquestelle e Lega in seguito tra Cinquestelle e Pd. Di suo poteva aggiungere poco, al massimo tenersi a galla. Dopodiché, poveretto, Conte si è immerso nelle beghe grilline. Invece di mettere al lavoro una squadra, un “brain trust” o un “think tank” per confezionargli un manifesto politico pieno di belle pensate, ha preferito fare tutto da solo; cioè nulla. Al massimo si è appuntato qualche suggestione senza però svilupparla. Così non si capisce adesso cosa direbbe il suo nuovo partito (a parte soste- nere lui s’intende) sull’Europa, sui diritti, sulla giustizia, sulle tasse, sull’immigrazione. Vuoto propositivo che gli altri leader perlomeno pro- vano a colmare twittando, rilasciando raffiche di interviste, litigando nei talk-show, spesso più rapidi del pensiero, comunque sbattendosi 24 ore su 24 laddove Conte finora non si è visto né sentito. E qui sorge un ulteriore problema.
Per mettere su un partito occorre sgobbare. Ascoltare la gente. Approfondire i problemi. Dirimere liti. Tirar fuori gli artigli. Scovare i candidati, lusingarli, mandarli al massacro. Tenere comizi, presenziare convegni, scapicollarsi su e giù per lo Stivale in una campagna elettorale perenne senza voli di Stato. Dare spettacolo gratis come Grillo; fare il fenomeno come Salvini; inghiottire salsicce alle sagre del maiale. E poi stringere mani sudate, baciare vecchiette, fare selfie con perfetti sconosciuti magari un po’ mafiosi, sottoporsi a degradanti bagni di folla, rischiare il matto che ti molla un ceffone o ti rompe una statuetta in testa (come al Cav nel 2009). Dedicare giornate intere a riunioni politiche verbose, dove l’ultimo arrivato dice la sua e il Capo deve prestare attenzione. Fondare un partito significa scegliersi consiglieri in gamba, non quelli che suggerivano di “spianare Renzi”, di arruolare i “responsabili” o di puntare dritto alle elezioni anticipate: se partisse da zero, Conte dovrebbe cacciarli a pedate e ingaggiarne di nuovi, sapendo che quelli bravi non lavorano gratis. Già, perché un partito costa. Non spiccioli: fiumi di soldi. Per affitti e bollette. Per sfornare la propaganda, compre- sa quella via web (chiedere al Capitano quanto costa la Bestia). Per organizzare comizi, prenotare teatri, allestire gazebo. Come può mantenersi un leader che, tra l’altro, non è nemmeno onorevole? Chi gli ripaga aerei, trasferte, cene, hotel? Nel 2015 Silvio scucì quasi 100 milioni per ripianare i debiti di Forza Italia, che però nel frattempo è andata in rosso per altri 90.
Se facesse il partito, Conte avrebbe due strade: trovarsi un gruppo di sponsor rispettabili, generosi, disinteressa- ti, disposti a finanziarlo senza nulla in cambio, nemmeno una spintarella, un aiutino legislativo piccino così (chiedere a Renzi se ne consiglia qualcuno). Oppure torchiare i parlamentari fedeli, a costo di perderne un po’, e andare alla cerca francescana come i Radicali di Marco Pannella, che spremevano continuamente soldi agli iscritti ricattandoli moralmente (perfino con gli scioperi della fame). Ricapitolando: per liberarsi del “padre padrone”, a Conte occorrerebbe un partito. Ma per farne uno nuovo servirebbero idee, soldi, radicamento sul territorio. Soprattutto una gran voglia di mettersi in gioco e, all’occorrenza, complicarsi la vita. La scommessa di Grillo è che il suo rivale alla fine calerà le piume. Perché lo considera troppo fighetto, educato, griffato, perbenino. Con tanta ambizione di comandare e poca di farsi un mazzo così.
Ugo Magri