Scrivo queste righe prima della finale di Matteo Berrettini e degli Azzurri nell’erba d’Inghilterra. Scrivo prima perché vittoria o sconfitta, trionfo o rovina (questi due impostori, secondo Kipling), non muterebbero di una virgola l’ebbrezza delle due finali, la grandezza di un Paese che ci ostiniamo a definire Bel Paese, mentre è giunto il momento di chiamarlo, e per sempre, Grande Paese. Ce lo hanno ricordato Berrettini e gli Azzurri, in questo caldo soffocante di luglio, ce lo ricorda lo sport, metafora della vita e di tutto il resto, lo sport che guida il Paese come la politica da decenni non riesce a fare, lo sport che incanta e riscalda, lo sport che fa sognare anche quando non sai se, alla fine, ti toccherà il riso o il pianto.
L’Italia d’Inghilterra è un Paese nuovo, rinnovato, e ha il dovere di credere in sé stesso, nelle sue energie migliori, che non risiedono più soltanto nei santi, nei poeti e nei navigatori, ma nel genio italico fatto di fantasia, di caparbietà, di passione. Non saranno queste due finali a sottolineare la nostra forza, ma il cammino compiuto fin qui è un cammino di solidità artistica, di inventiva disciplinata, un cammino che resterà a tenerci compagnia nei momenti di debolezza (quando saremo chiamati a dirci, ancora una volta, di essere spacciati) e a farci risorgere, a puntare in alto, poiché lì è il nostro destino, meritato da chi ci ha preceduti in ogni campo.
È l’11 luglio 1982. Il giorno dopo, sul Corriere dello Sport, leggo Giorgio Tosatti: “Oggi è bello essere italiani. Alza la coppa, Dino, alzala perché il mondo la veda. Non avete vinto solo una partita, avete regalato a un Paese un dono inestimabile: la fede in se stesso”.