“Ahi, Sudamerica!, “Oriundi, tango e futbol” è il nuovo libro del nostro editorialista Marco Ferrari (Laterza, 264 pagine, 18 Euro, acquistabile in ebook o tramite Amazon o Ibs) che racconta storie e leggende tra l’Italia e l’Argentina, tra Genova, Montevideo e Buenos Aires sempre legate dal sogno del calcio. Sono storie, esilaranti, malinconiche e struggenti, a cavallo tra le due sponde dell’oceano, con in mente i personaggi strampalati di Osvaldo Soriano e come colonna sonora le note intense di Astor Piazzolla. All’inizio del Novecento nascono squadre mitiche, dagli xeneizes del Boca Juniors ai millonarios del River Plate, dal Peñarol all’Audax Italiano di Santiago del Cile. La febbre del calcio si trasmette a tutto il continente e gli italiani sono sempre i portatori sani di questa epidemia, da San Paolo del Brasile a Caracas, Asunción e Montevideo. Scopriamo così le imprese e le avventure improbabili di calciatori geniali e destinati a segnare la storia: dal trio delle meraviglie del Torino fino al grandioso Guillermo António Stábile, El Filtrador. Così, tra i tangueros della Juventus, il Bologna uruguagio voluto da Mussolini, i romanisti in fuga dal regime fascista, i cinque “bidoni” uruguayani comprati dall’Inter, ci sorprenderemo e commuoveremo di fronte alle vicende di quelli che Borges chiamava i «figli dell’Europa rovesciata e depositata dall’altra parte dell’Atlantico». Storie malinconiche e surreali in cui pure Lionel Messi, La Pulga, ha qualcosa in comune con Giacomo Leopardi. Pubblichiamo parti del libro di Marco Ferrari

di Marco Ferrari

L’autista della tramvia numero 27 frenò di colpo nella calle Treinta y Tres nella zona di Boedo. Si sentì chiaramente lo stridore metallico delle ruote sui binari e si videro lampi di schegge proiettati nell’aria. Il bambino che stava cercando di recuperare la palla scivolò e si trattenne con i piedi puntati sulla ruota destra della tramvia. Don Lorenzo Bartolomé Massa (1882-1949) si fece il segno della croce pensando che solo un miracolo aveva salvato quel piccolo «pulcino malevolo» che aveva rischiato la vita per prendere un pallone. La gente si accalcò attorno a quel gruppetto di purretes che preferiva giocare al calcio piuttosto che andare a scuola. «Finirete nella malavita» gridavano le donne. Loro, scontrosi e lerci, ottusi e cialtroni, le schernivano beffardamente mischiando i loro dialetti gallegos e tanos. Il prete si avvicinò e li invogliò a dare un’occhiata al cortile dell’oratorio di Sant’Antonio da Padova nella vicina calle México 4050. Loro lo seguirono perplessi e timorosi, figli della distanza, figli di nessuno, di anarchici o operai maltrattati, di contadini con orti di periferia e madri che lavoravano ai telai da mattina a sera, senza educazione scolastica, mai catechizzati, avvezzi al linguaggio segreto del lunfardo, per non farsi intendere dai poliziotti. Il patio era abbastanza grande e protetto per tirar su due porte di legno e segnare qualche riga per terra. Il giovane padre Lorenzo li raccolse attorno a sé e disse: «Se vi va bene il cortile ve lo lascio per giocare al calcio, ma ad una condizione: che partecipiate alla messa e alle lezioni di catechismo». Molti non sapevano neppure di cosa si trattasse, cresciuti per strada, sotto dei tetti gocciolanti d’acqua, in conventillos di razze che si fronteggiavano a colpi di coltello e passi di tango, che si rubavano le galline e le donne. Senza saperlo don Lorenzo aveva incontrato la prima squadretta di calcio del quartiere, Los Forzosos de Almagro, che si batteva senza regole e senza limiti in tornei improvvisati tra bande di ragazzini.

«Conclusa la prima partita – scrive don Lorenzo nel suo diario personale – i giovani chiesero il permesso di organizzare in un saloncino l’assemblea del club». Era il 1° aprile 1908. Questa fu la prima tappa che portò alla fondazione del Club Atlético San Lorenzo de Almagro. Il capo di quella masnada chiassosa di giovinastri si chiamava Federico Monti. Il prete discusse con lui: «Questo nome che avete mi pare troppo violento! Chiamatevi El Triunfador de Almagro, El Invencible, El Almagreño, El Centinela de Quito per ricordare la strada dove vi siete formati, Los Canasteros oppure Cestos y Canastas per il lavoro che si fa nel quartiere». Uno di loro, Scaramusso, urlò: «La squadra chiamiamola Lorenzo Massa». Il prete se la rise: «San Lorenzo de Almagro mi pare più appropriato. Una squadra che porta il nome del valo- roso martire romano farà strada, con l’aiuto di Dio». Il nome era un omaggio al prete e al quartiere, due veri marchi di fabbrica. Anche i colori della maglia non furono frutto del caso: l’azzurro e il rosso si ispirarono alla statua dedicata alla Vergine Maria Ausiliatrice della Cattedrale di Torino, raffigurata con abito rosso e mantello blu, tanto cara a san Giovanni Bosco. In quell’anno 1908 l’attività sportiva si allargò al basket, alle corse e ad altre discipline. Si rese necessario creare una «com- missione per gli incontri, il controllo del vestiario e delle dona- zioni». Dal 1921 per volere del superiore dei salesiani, l’italiano don Giuseppe Vespignani, nacque lo scoutismo argentino. Padre Lorenzo si trasformò nell’accompagnatore dei giovani calciatori. Così quando in qualche campo dell’immensa periferia di Buenos Aires vedevano comparire Federico Monti (1882-1952) e l’allegra truppa di Almagro guidata da don Lorenzo con la sua svolazzante tunica nera gridavano: «¡Ahí vienen los cuervos!».

Quel soprannome di cuervos arriverà sino a noi. Don Lorenzo non poteva sapere che da quella combriccola di adolescenti selvatici e zotici sarebbe nato un club di carattere internazionale. Figlio di emigranti torinesi (il padre si chiamava Lorenzo, come lui, e la madre Margherita Scanavino), due sorelle con abito religioso, il salesiano diffuse l’incontro tra don Bosco e i giovani nelle ardite strade dell’emigrazione in Argentina, a Buenos Aires, Tucumán, Salta, Rosario, Carmen de Patagones, assolate pianure e ventose praterie, villaggi amorfi e capanne di paglia sulle rive di fiumi interminabili. La sua azione apostolica, la sua vocazione educativa furono portate sullo schermo nel 1954 con il film El cura Lorenzo di Augusto César Vatteone, protagonista l’attore Ángel Magaña. Dal 2008 le sue spoglie riposano nel mausoleo dell’oratorio di Sant’Antonio, in quella calle México 4050 in cui nacque una delle squadre calcistiche più importanti del pianeta. Stefano Borghi, inconfondibile voce televisiva, che ha dedicato un libro al club porteño (La squadra del cuore di papa Francesco. San Lorenzo de Almagro, Imprimatur, 2013), narra la drammatica vicenda di Jacobo Urso, figlio di italiani, primo atleta lorenzino chiamato in nazionale, che durante una partita contro l’Estudiantes di Buenos Aires, il 30 luglio 1922 allo stadio del quartiere di Palermo, in uno scontro di gioco con Comolli e Van Kammenade, riportò la perforazione del polmone. Il giovane continuò a giocare sino a quando riuscì a realizzare un cross per il gol vincente. A quel punto si adagiò a terra sfinito. Ricoverato in ospedale, esalò l’ultimo respiro due settimane dopo rimanendo impresso nella storia centenaria della società di Almagro. Los cuervos sono diventati la squadra papalina.

Come don Lorenzo Bartolomé Massa, anche papa Francesco ha le proprie radici familiari in Piemonte, nell’Astigiano. Suo nonno Giovanni Bergoglio con la moglie Rosa Vassallo e il figlio Mario lasciarono il porto di Genova a bordo del transatlantico “Giu- lio Cesare” il 1° febbraio 1929 approdando quattordici giorni dopo a Buenos Aires. Da bambino Jorge Mario Bergoglio, nato nella capitale argentina nel 1936, andava proprio in quell’o- ratorio accompagnato dal padre Mario, funzionario delle ferrovie e cestista per passione. Si narra che il futuro papa abbia scambiato qualche tocco di palla con Alfredo Di Stefano che aveva frequentato la stessa scuola di Bergoglio, anche se più grande di dieci anni. Già a 15 anni Di Stefano era ammirato da tutti i coetanei e i più piccoli perché era entrato nelle giovanili del River Plate. Un suo colpo di tacco valeva già oro. Il 15 luglio 1945 lo fecero persino debuttare contro l’Huracán che, l’anno dopo, lo tesserò avendo scoperto il suo potenziale, salvo poi far ritorno ai millonarios da dove spiccò il volo per la gloria. In quel campetto di Almagro, Bergoglio farfugliava qualche espressione in piemontese e il futuro campione gli rispondeva in napoletano, avendo la famiglia paterna originaria di Capri. In quegli anni la sede di avenida La Plata diventa un centro sociale: 33 mila iscritti, una piscina olimpica, corsi sportivi, danza classica, musica e persino cucito. Una biblioteca di 11 mila libri in cui lavora Jorge Luis Borges. Conquistati due secondi posti, si prepara l’ora del tripudio. Bergoglio ha ancora oggi negli occhi il trionfo azulgrana del 1946 con il terceto de oro Farro-Pontoni-Martino, immortalato nella prima pagina di «El Gráfico». Un attacco mitraglia che fece sette gol al Rosario Central, sei all'Atlanta, cinque al Lanús, al Platense e al Racing e battendo sia il Boca che il River.

Così papa Francesco ha raccontato al quotidiano «La Gazzetta dello Sport» il suo attaccamento ai colori azulgrana: Ricordo molto bene e con piacere quando, da bambino, con la mia famiglia andavamo allo stadio, El Gasómetro. Ho memoria, in modo particolare, del campionato del 1946, quello che il mio San Lorenzo vinse. Ricordo quelle giornate passate a vedere i calciatori giocare e la felicità di noi bambini quando tornavamo a casa: la gioia, la felicità sul volto, l’adrenalina nel sangue. Poi ho un altro ricordo, quello del pallone di stracci, la pelota de trapo: il cuoio costava e noi eravamo poveri, la gomma non era ancora così abituale, ma a noi bastava una palla di stracci per divertirci e fare, quasi, dei miracoli giocando nella piazzetta vicino a casa. Da piccolo mi piaceva il calcio, ma non ero tra i più bravi, anzi ero quello che in Argentina chiamano un pata dura, letteralmente gamba dura. Per questo mi facevano sempre giocare in porta. Ma fare il portiere è stato per me una grande scuola di vita. Il portiere deve essere pronto a rispondere a pericoli che possono arrivare da ogni parte... E ho giocato anche a basket, mi piaceva il basket perché mio papà era una colonna della squadra di pallacanestro del San Lorenzo. I campioni argentini vennero invitati ad una trionfale tournée in Europa, la prima in aereo, un DC-4 della Iberia con scalo alle Canarie. All’aeroporto di Barajas il primo a scendere dalla scaletta fu il giocatore spagnolo Ángel Zubieta, abbracciato dalla madre e da sua sorella, giunte apposta da Bilbao per vederlo dopo tanto tempo passato in Argentina. La rosa era formata da atleti prevalentemente di origine italiana: Blazina, Vanzini, Basso, Grecco, Colombo, Imbelloni, Farro, Pontoni, Martino, Silva, Rodríguez, Peñalva, Crespi, Aballay, Alarcón e De la Mata. La squadra, guidata dal presidente Domingo Peluffo, fece sfracelli segnando 41 gol in otto partite, dieci gol in un match contro una selezione portoghese e nove gol a Porto.

Con la nazionale spagnola stravinse con punteggi tennistici due partite: 7-5 e 6-1. E non era una Spagna qualunque poiché il duo d’attacco era formato da Isidro Lángara, capocannoniere sia nel paese iberico che in Argentina, e da Telmo Zarra, il più prolifico goleador della Liga spagnola. Il quotidiano «El País», anni dopo, ha commentato così la tournée della squadra allora migliore al mondo: «Quello che accadde dal 21 dicembre alla fine di gennaio 1947 sembrò irreale, inenarrabile... Il San Lorenzo di Almagro, pur giocando contro il freddo, la neve e l’intensità della pioggia di quell'inverno, fu sensazionale... Trasformò la sua squadra in una scuola itinerante di calcio». Oggi va di moda il termine tiki-taka, inventato dal giornalista spagnolo Andrés Montes per rappresentare quel modello basato sul gioco collettivo. È una tecnica che ha preso campo a Barcellona già ai tempi della direzione di Johan Cruijff, un adattamento al famoso modulo del football totale giocato dall’Ajax. I critici più noti del pallone fanno risalire proprio al San Lorenzo quel modo di gioco espletato in maniera chiara in quella tournée europea del 1947, inventato dall’allenatore Pedro Omar. Tiki-taka, tiki-taka, palla infilata tra due difensori e René Pontoni che infilza il portiere dal lato opposto dell’uscita. Un classico. Un toccante documentario della televisione spagnola in bianco e nero ci illustra quel viaggio in terra iberica dei cam- pioni argentini in stadi stracolmi di uomini con cappello Borsalino e donne impellicciate, incuriosite nel vedere quei calciatori che venivano dalla fine del mondo, belli, muscolo- si, atletici, guerrieri come i fumetti rappresentavano gli indios della Patagonia, anche se in realtà erano quasi tutti italiani. Pontoni, Vanzini e gli altri girano tra i negozi di Madrid, un po’ infreddoliti, in una città fiaccata dalla neve, con le strade in cui gli spazzini tirano via i cumuli biancastri che intasano il traffico.

A Barcellona visitano fabbriche e palazzi e partecipano a una festa al Parco della Cittadella con migliaia di persone che ballano la sardana. Il Barcellona propone un contratto a Pontoni, ma lui rinuncia e torna in patria, come racconta Lorenzo Galliani (René Pontoni. Il calciatore preferito di Papa Bergoglio, Minerva 2016) per finire presto la carriera e aprire una pizzeria, “La Guitarrita”, assieme al cognato Mario Emilio Heriberto Boyé, soprannominato Atómico, compagno in quella nazionale che dominò i campionati sudamericani. È il periodo in cui i campioni del San Lorenzo diventano vedette: René Pontoni promoziona il vino Arizu e diventa testimonial della ditta Sportlandia. Non è bello ma è simpatico, ha un leggero prognatismo mandibolare, assomiglia a Quentin Tarantino. Il terceto de oro è atteso da destini diversi: Pontoni non riuscirà mai a raggiungere la terra dei padri. Figlio di Ermenegildo- e Lucia Scarafia, quinto figlio della coppia, restò orfano di padre all’età di 4 anni. A 12 anni iniziò a lavorare con il fratello Juan Alberto in una ditta di uova. Il fratello maggiore lo portò a giocare nella Gimnasia y Esgrima de Santa Fe, ma fu costretto a rinunciare a causa dei problemi economici della famiglia. Trovò un'occupazione in una officina. In poco tempo aumentò di 30 chili. Quando i dirigenti della sua società andarono a cercarlo per indurlo a riprendere, quasi non lo riconobbero. Huetivo, come lo chiamavano i compagni per il suo lavoro, trovò nella cancha il suo secondo padre, José B. Canteli. Giocò nel modesto Gimnasia y Esgrima de Santa Fe sino al ’40, passò al Club Atlético Newell’s Old Boys poiché sua madre non voleva che si allontanasse troppo lontano da casa. Debuttò con i capelli rasati perché stava facendo il servizio militare. Esordì in nazionale nel ’42 con un gol contro il nemico di sempre, l’Uruguay. Accettò infine il San Lorenzo per volontà di Dio e della madre. Al debutto segnò tre gol diventando subito la stella del ciclón San Lorenzo. Allora los cuervos calpestavano il vecchio stadio Gasómet- ro, chiuso nel 1979 dalla dittatura di Videla. Seduti sugli spalti padre e figlio Bergoglio aspettavano il gol di Pontoni, che puntualmente li accontentava.

I due Bergoglio erano presenti quando Pontoni fece il gol-scudetto contro il Racing il 13 ottobre del 1946. Fu l’unico vero astro azulgrana sino al ’48 quando il rosali- no Rodolfo De Zorzi, allora difensore del Boca Juniors e della nazionale, alla ventiquattresima di campionato, con un’entra- ta violenta gli spaccò rotula e menisco e gli provocò la rottura dei legamenti. Pontoni non fu mai più quello di prima, finì a giocare in chiassosi e rissosi campetti della Colombia, in co- lorati stadi brasiliani per chiudere nel ’54 di nuovo nel San Lorenzo dove disputò solo quattro incontri. Tutti lo indicano come l’eroe del ciclón San Lorenzo del ’46 – con 90 gol segnati dalla squadra in 30 partite – ma le sue ginocchia scricchiolano, il peso lo rallentava negli scatti e l’artrosi gli aveva consumato le ossa. L’abuelo Pontoni (ormai lo chiamavano il nonno) aveva 34 anni e duettava con ragazzi di venti. Più che un Huevo era oramai una frittata. Nell’agosto del 2013 papa Francesco ha ricevuto i calciatori dell’Italia e dell’Argentina. La delegazione della Selección ha regalato al Pontefice una fotografia ingrandita di quell’acro- batica esecuzione del ’46. Peccato che Pontoni non sia stato presente. Se ne è andato a 63 anni, colpito da infarto nella sua Santa Fe. Il secondo artigliere del terceto de oro era Armando Farro, che passò gran parte della carriera tra gli azulgrana e fece in tempo, a fine carriera, a giocare ancora con Pontoni. L’altro attaccante si chiamava Rinaldo Fioramonte Marti- no. Lui era l’ultimo di nove fratelli, il più piccolo. Sua madre Maria lo aiutava a scappare per andare a giocare a calcio mentre il padre Benito non voleva che giocasse a pallone. Da Rosario scende a Buenos Aires a 19 anni, conquista la fatidica maglia numero 10 degli azulgrana e il tecnico magiaro Emérico Hirsch gli consegna subito la bacchetta di direttore d’orchestra. Esegue talmente bene che nel 1946 viene canonizzato come la guida spiritual-calcistica del secondo scudetto azulgrana.

Nel 1949 fa una fugace ma consistente apparizione nella Juventus (33 partite e 18 gol), vincendo il titolo, e nella nazionale italiana giocando una sola partita. Il merito di averlo trascinato in Italia, come oriundo, si deve a Carletto Levi, plenipotenziario dell’avvocato Gianni Agnelli in Sudamerica, che così telegrafò a Torino: «Trovata una mezzala destra fortissima stop gioca in nazionale e nel San Lorenzo stop origini italiane stop». Nell’estate del ’49 l’italo-argentino Martino e i nordici Hansen e Praest sono gli assi nella manica del gruppo torinese. Martino parla abbastanza bene l’italiano, ha una voce baritonale, canta in campo, ma è un po’ scontroso e timido. Rammenta un ballerino di tango che, del resto, è la sua vera passione. Nell’anno della grande umiliazione (sconfitta storica a Torino contro il Milan di Liedholm, Nordahl e Gren, 7-1), i bianconeri attuano un progressivo cammino elaborato dalla fermezza dell’allenatore Jesse Carver che non cambia quasi mai formazione. Martino finalmente sorride e fa divertire il pubblico del Comunale, trovando una bella intesa con il ras Boniperti. Le giocate e i lanci perfetti gli procurano il soprannome di Zampa di velluto che va a sostituire i precedenti nomignoli di Negro a Rosario e Mamucho a Buenos Aires. Segna il gol decisi- vo della vittoria contro il Milan a San Siro e rifila due reti alla Triestina. Incarna il tipico italiano che ha conquistato la gloria in Argentina e ha scelto il ritorno. Così Walter Chiari lo chiama a recitare al suo fianco. Ma Martino ha una spina nel fianco: non si chiama gioco, si chiama ambientamento. Sua moglie non ne vuole più sapere della soporifera aria torinese fatta di neve, nebbia, smog, frettolose e solitarie passeggiate sotto i portici ascoltando persone che parlano in dialetto. Una città troppo formale per una ragazza cresciuta nella promiscuità bairese. Lei non respira più. Ha bisogno del vento del Río de la Plata, delle correnti marine, delle navi sbuffanti, ha bisogno delle lunghe distese piatte dove l’orizzonte non è chiuso da una conca di montagne offuscanti e nevose.

Le maestose mosse, combinazioni e fantasie fuori dagli schemi di Martino, sanno già di nostalgia prima di cucirsi lo scudetto sulla maglia della Giuve. È un tipo solitario, taciturno, fascinoso, non si fida del suo doppio: quando è qui sogna di passeggiare a Florida, quando è a Puerto Madero rimpiange la Giuve. Si è portato tre paia di scarpe da Buenos Aires. Saranno pure benedette dal vescovo della capitale argentina, ma non varrebbe la pena comprarne di nuove? Così quando il 30 novembre del ’49 esordisce in azzurro allo stadio White Hart Lane di Londra contro l’Inghilterra, rimediando un brusco 2-0, Martino non accetta le scarpe della nazionale, preferisce le sue vecchie pantofole di cuoio cucite da un artigiano di Bordo. All’inizio dell’estate fa le valigie nello stupore generale dei tifosi portandosi al Boca Juniors (erano anni diversi da oggi) lo stesso stipendio di Torino. Andrà in prestito al Nacional di Montevideo, poi giocherà nel Boca, poi di nuovo oltre il Río de la Plata al Nacional di Montevideo e chiuderà al Cerro uruguayo nel ’53. Da quel momento si dedica al tango, apre un locale che diventa subito noto al grande turismo, “Caño 14”, ubicato inizialmente in avenida Uruguay, tra Paraguay e Córdoba. Da marzo 1962 risplendono due luci fosforescenti che annunciano gli spettacoli della settimana: Aníbal Troilo, Atilio Stampone, Roberto Goyeneche. I posti da riservare sono solo cento, eppure il locale riempie le notti di Buenos Aires. Con Rinaldo Mamucho Martino lavorano appunto il musicista Atilio Stampone e Vicente Fiasche. Qualcuno parla di nuovo terceto de oro o trío de oro delle attrattive notturne. È qui che Aníbal Troilo diventa un re del tango con il quartetto formato con Roberto Grela, Enrique Francini oppure Héctor Stamponi, Horacio Salgán o Ubaldo De Lío. Si dice che tale fu il successo che una notte il vicepresidente Carlos Perette (allora il presi- dente era Arturo Illia) ascoltò dal marciapiede lo spettacolo di Troilo.

Fu allora che Martino decise di trasferirsi in un locale più grande in Talcahuano, vicino a Charcas, dove, oltre ai soliti noti come Grela, Copes, Francini, andava in scena il maestro dei maestri, Osvaldo Pugliese. Lì El Nano Joan Manuel Serrat inventò le strofe del suo magico tango Sur accompagnato dalle note struggenti del bandoneón di Pichuco Troilo. Fu un dispiacere per Mamucho chiudere quel locale nel 1986 anche se, per fortuna, il “Caño 14” ha riaperto i battenti a Recoleta. Quando riconosceva qualche turista italiano, Martino si avvicinava e raccontava la sua breve ma intensa esperienza juventina con un buon accento italiano: «Lasciare Torino è stato il più grave errore della mia vita» confessava tra un bicchiere di malbec e un passo di cumparcita. Così Martino Zampa di velluto divenne il più noto bohémien rioplatense. Se ne andò all’alba del 15 novembre 2000 contento di aver visto il nuovo millennio: «Questa è l’ora in cui muoiono quelli che sanno morire» sentenziò. Al cimitero della Chacarita ogni giorno un tifoso del San Lorenzo posa un fiore sulla sua tomba.

(continua)