di James Hansen
L’immagine che illustra il tema di oggi non è per niente “politically correct” e ce ne scusiamo con i lettori. È comunque a modo suo un’opera importante, la bozza di una copertina “pulp” americana degli anni Cinquanta eseguita da un maestro assai riconosciuto del genere, Harold McCauley (1913-1977).
Ad ogni modo, e oltre allo sfruttamento volgarotto della figura femminile, non sono certo solo le donne ad avere paura dei “robot”, intesi come tutti quei sistemi automatizzati che, secondo numerosi articoli sui media, ci ruberanno i posti di lavoro nei prossimi anni. Escono periodicamente elenchi minacciosi dei mestieri “più a rischio” che, a leggerli con attenzione, indicano chiaramente che finiremo tutti come i cavalli dopo l’avvento dell’automobile…
Per la verità, pare che non stia succedendo esattamente questo. Almeno per ora, ciò che viene automatizzato non è tanto il lavoro in sé, bensì la sua supervisione, un fenomeno già visto nello svuotamento delle competenze dei direttori di banca. Una volta erano degli dei, oggi sono al meglio visti come una sorta di caposquadra.
È una trasformazione che si ripercuote su tutta la catena di responsabilità. E chi ci guarda e controlla è spesso una macchina. L’aspetto è specialmente presente tra i lavori più umili, fare le consegne per esempio, o il lavoro di magazzino. In tutti quei casi dove l’automatizzazione costa più delle persone, si tende a intervenire per incrementare la produttività degli “umani” attraverso un controllo “disumano”. Così, per fare solo un esempio tra tanti, è un computer a seguire col GPS - e spronare a necessità - chi gira con il furgoncino a consegnare i pacchi Amazon, dando o togliendo punti in base al rendimento.
Il problema si riassume con efficacia nel titolo di un recente e interessante articolo sulla rivista Vox: “i robot dovevano fregarci il posto. Invece, lo peggiorano”. Ci obbligano davvero a lavorare - a “faticare” - anche quando potremmo essere invisibili a un supervisore umano. Non riusciamo più a “rubacchiare” i nostri sacrosanti spazi, nemmeno quando stiamo “working from home”.
Buone vacanze, James