Qualcuno sta preparando una nuova marcia su Roma a poco meno di cent’anni dalla prima? No, certo che no. Non scherziamo. Eppure, è indubbio che nel nostro Paese siano costantemente in servizio personaggi noti e meno noti che, con le radici del fascismo, giocano amabilmente una partita mai finita, titillando bassi istinti e parole becere di una moltitudine impaurita e insofferente, pronta a incendiarsi al primo squillo di tromba. Basta andare sui social o sulle chat di alcuni partiti, dove i militanti, ben sollecitati, scaricano la velenosa aggressività impastata di intolleranza, apologia dei tempi che furono e discriminazioni.
A Mussolini, se potesse leggerli, una qualche voglia di riprovarci gli verrebbe. I personaggi, che siano politici, giornalisti, uomini di cultura, ovviamente negano di coltivare nostalgie, però a quel mondo strizzano quotidianamente gli occhi. Chi per prendere qualche voto in più, chi per vendere qualche copia in più, chi per ricordare che, bontà sua, il fascismo fece anche cose buone. Se Edith Bruck, a novant’anni, annusa ancora quella puzza, qualcosa dev’esserci nell’aria; non può essere l’allucinazione di una scrittrice ungherese naturalizzata italiana, che vede mostri dappertutto, che teme un triste ritorno al passato, un vento nero che soffia ancora tragicamente su di noi. Se il passato rischia di essere il respiro del presente, dobbiamo tenere in debito conto i timori di chi ha vissuto l’invivibile, di chi ha raccontato l’irraccontabile.
Il “caso Durigon” ha riaperto il dibattito ed è bene che non riempia soltanto il vuoto di ferragosto. Occorre una riflessione più ampia e meditata sullo stato di civiltà del nostro Paese, sulla sua continua emergenza politica, altro che sanitaria. È sull’emergenza politica, è sulle mancate riforme di cui si ciancia da trent’anni, che dovrebbero disquisire filosofi e politici, senza trascurare l’apporto di qualche bravo psicoanalista. Durigon sarà anche bravissimo, come dice Salvini, ma il continuo ammiccare al tragico senza pagare pegno, disegna una destra italiana irresponsabile, incapace di coniugare la storia, di riconoscerla per quella che è, incapace di guardare al futuro con occhi nuovi, senza patrioti, senza l’armamentario di un mondo morto e sepolto.
Tentare di farlo rivivere, anche solo giocando, sostituisce la tragedia con la farsa e impedisce a una destra colta, illuminata, preparata, che pure esiste, di praticare il libero esercizio del governo e dell’opposizione, della naturale alternanza, senza spaventare chi si aspetta visioni e decisioni, non impensabili marce. Perché l’Italia (con l’Europa), ogni volta che si sta per eleggere un nuovo Presidente della Repubblica, deve avere paura che non sia quello giusto, che non venga dalla solita parte politica?
Se lo chiedano Meloni e Salvini. Soltanto con risposte credibili e azioni non discutibili è possibile dimostrare che la nostalgia è un lontano ricordo. Un tragico ricordo. Quello sì, da togliersi di dosso per sempre. Quella è l’intitolazione da cambiare radicalmente, se la destra vuole essere normale e moderna, all’altezza delle complicate sfide che il mondo presenta. Non l’intitolazione del Parco Falcone e Borsellino.
DAVIDE D'ALESSANDRO