di Roberto Arditti
Al netto degli aspetti geopolitici (che meriterebbero una trattazione a parte, all'insegna del successo dei "supporters" internazionali, cinesi con estrema probabilità, senza i quali i talebani di nuovo conio avrebbero molta meno forza), la tragedia afghana impone un ragionamento tutto relativo alle nostre democrazie e, soprattutto, alla formazione del pensiero nelle nostre élite.
Il punto di partenza è riassumibile in modo semplice: gran parte dell'intellighenzia europea e nordamericana contrasta in modo assoluto l'intervento militare di vent'anni fa, ritenendolo figlio di una decisione di destra e, quindi, fallimentare in partenza, voluta da governanti come Bush, Aznar e Berlusconi con l'appoggio del traditore Blair.
Questa impostazione è rimasta viva e vegeta per tutti gli anni successivi, declinata però in due "filoni" essenziali, cioè quello "assolutista" (alla Gino Strada per intendersi, secondo cui la guerra è sempre sbagliata) e quello "relativista" delle socialdemocrazie europee con i loro mille distinguo sugli aspetti operativi della missione, sulle sue finalità e, soprattutto, sui risultati ottenuti.
Questo potente movimento d'opinione lavora ai fianchi i governanti fino al punto da imporre nell'agenda americana il tema del ritiro, che però diviene concreto solo attraverso il congiungimento con un'altra impostazione ideologica di carattere del tutto diverso, cioè quella sovranista-menefreghista di cui Donald Trump è interprete perfetto.
Si giunge così a Washington alla decisione di scappare da Kabul (perché di fuga si tratta, parlare di ritiro ordinato è semplicemente ridicolo) proprio grazie al combinato disposto del "bullo" Trump, che in nome dell'America First inizia a ridurre drasticamente il contingente e dell'evanescente Biden che completa l'opera facendo un danno che è mille e mille e ancora mille volte peggio del Vietnam, non fosse altro perché vissuto su Instagram, Facebook e Tik Tok.
Il punto però è che la stessa intellighenzia che ha tuonato per anni contro la missione in Afghanistan sostiene di avere a cuore i valori liberali e democratici del vivere in società, sbandiera come un mantra costante tutti i temi dei diritti civili, caldeggia costantemente la parità di genere come asse portante del tempo in cui viviamo.
Queste giuste e sacrosante posizioni consentono però ai medesimi critici della presenza occidentale a Kabul di riconoscere con estrema fatica i progressi ottenuti da quelle parti, dove le donne (almeno in città) hanno cominciato ad andare a scuola e a lavorare e dove gli uomini hanno iniziato a tenere atteggiamenti più rispettosi.
Progressi limitati fin che si vuole, ma comunque progressi, che però vanno minimizzati onde evitare di apparire sostenitori di quegli orrendi figuri citati qui sopra, cioè Bush, Berlusconi è così via.
Ed eccola allora la "trappola di Kabul", in cui è cascata per autocombustione l'intera élite progressista europea, che vuole da un lato un mondo più giusto e più libero, ma che rifiuta al contempo di accettare l'idea che in giro per il pianeta vi sono forze micidiali votate alla brutale gestione del potere, allo sfruttamento cinico e mostruoso delle false convinzioni religiose, alla moltiplicazione della ricchezza a benefico di pochi sulla pelle di tutti gli altri.
Si finisce così per piangere oggi sulle tragedie incombenti per donne e uomini rimasti in Afghanistan dopo avere creduto che noi li avremmo aiutati per sempre, fingendo di non sapere che fin dalla notte dei tempi la libertà e il progresso si sono fatti strada con la forza.
Questa intellighenzia mediamente ricca e mediamente ignorante dimentica cioè che la Rivoluzione Francese è andata avanti a suon di morti, che la liberazione dai mostri del nazismo e del fascismo è costata una Guerra Mondiale, che la fine del comunismo ha comportato prezzi elevatissimi per milioni di persone, molte delle quali hanno perso la vita (si legge alla voce Gulag).
Insomma si pretenderebbe che a Kabul tutto prenda forme e modi in uso a Losanna per effetto del destino o, magari, dello Spirito Santo. La storia invece procede alternando progressi e tragedie, mescolando momenti di luce a lunghi periodi di buio spaventoso.
Oggi a Kabul noi dimostriamo di non saper più leggere la storia, presi come siamo dalle nostre beghe di cortile e dalla nostra miopia culturale. E finiamo per credere che alcune migliaia di talebani in armi possano rappresentare un nemico temibile, mentre invece i nostri ragazzi della Folgore li rimetterebbero al loro posto in meno di un mese. Ma in fondo cose ce ne importa, abbiamo vinto gli Europei e pure le medaglie a Tokyo e tanto ci basta. Delle ragazze di Kabul non frega niente a nessuno.