Di Ciro Sballó
Un nuovo sciame sismico attraversa la umma islamica. Dalla fine della Guerra fredda, questi movimenti tellurici si fanno sempre frequenti e intensi, come dimostrano anche i postumi della Primavera araba nel Nord Africa e gli scontri scoppiati intorno alla Pace di Abramo e alla crisi libica. L’instaurazione di uno Stato islamico in Afghanistan potrebbe gettare benzina sul fuoco delle tensioni già esistenti nella umma intorno all’alternativa islamica. La riespansione del principio ordinatore islamico si presenta come un fenomeno “naturale”, di fronte alla crisi dell’egemonia culturale del costituzionalismo occidentale.
Anche durante la guerra fredda, questa egemonia si faceva sentire. In fondo, una parte notevole della propaganda comunista era basata sul fatto che in Unione Sovietica vi fosse la “vera” democrazia e vi fosse il vero rispetto della volontà del popolo (si parlava, infatti, di democrazie popolari). In fondo si trattava di una sfida interna all’Occidente. Ma dopo il 1989 non abbiamo assistito all’affermazione universale del modello occidentale, bensì alla formazione di più progetti politici globali alternativi rispetto all’esperienza del costituzionalismo euro-americano.
Un anticipo di questa sfida la avemmo nella rivoluzione khomeinista, che portò alla nascita della Repubblica islamica dell’Iran. Quell’evento generò un’ondata di passione rivoluzionaria in tutta la umma islamica, coinvolgendo anche la maggioranza sunnita, con molti tentativi di emulazione. Si ricordi, ad esempio, il sequestro della Grande Moschea della Mecca del 20 novembre 1979: un episodio che scioccò il mondo islamico e che ancora vive nella memoria islamico-popolare. Anche oggi, la nascita dello Stato islamico afghano potrebbe innescare meccanismi emulativi, ridando vigore all’islamismo, anche nei Paesi dove è stato sconfitto, come nell’Egitto di Morsi o nella Tunisia di Kaïs Saïed. L’Isis era facile da condannare, per la sua efferatezza e per il suo uso disinvolto delle fonti sciaraitiche. La Repubblica dei Talebani si presenta in maniera diversa: potrebbe presentarsi, al limite, come una sorta di versione sunnita della teocrazia iraniana (ciò, del resto, sarebbe in sintonia con l’ideologia della Fratellanza musulmana, che coltiva una sorta di “ecumenismo” islamico rivoluzionario, in contrapposizione al rigoroso anti-sciismo di molte correnti sunnite radicali), una Repubblica liberticida e autoritaria almeno quanto la Cina, ma non certamente paragonabile al delirio nichilista del Califfato nero.
C’è da fare affidamento innanzitutto su Arabia Saudita, Turchia e Pakistan, tre potenze islamiche, non sempre in accordo tra loro (in particolare, Ankara e Riad sono spesso su posizioni antagonistiche, come accaduto, ad esempio, con gli accordi di Abramo): in fondo, un’ondata rivoluzionaria interna alla umma sarebbe un problema per tutte le classi dirigenti dei Paesi islamici. Sicuramente un ruolo importante sarà esercitato anche dalla Cina e dalla Russia, i cui interessi nella regione sono secolari.
Il realismo Usa è un appello all’Europa - Questo sanziona in via definitiva il tramonto dell’egemonia culturale del costituzionalismo occidentale. S’è scritto abbastanza sull’errore di pensare di esportare la democrazia. La tentazione dell’autoflagellazione è molto alta (in fondo, una via di fuga comoda, se ci pensa).
La democrazia occidentale, con tutti i suoi difetti, resta di gran lunga «la peggiore forma di Governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora», come diceva Winston Churchill, citando Platone (la conoscenza dei classici greci non è cosa rara tra i Tories). Sono lì a ricordarcelo le immagini delle mamme afghane che lanciano i loro bambini oltre le barriere di filo spinato chiedendo ai soldati britannici di metterli in salvo dai talebani. Sono immagini non nuove. Pensate ai berlinesi che si lanciavano dalle finestre case dopo la costruzione del muro, avvenuta il 13 agosto di sessant’anni fa, e ai quasi mille morti per sfuggire al «paradiso russo» (come dice Peppino, che si trova incastrato a Est, in Totò e Peppino divisi a Berlino, del 1962). Terze vie o soluzioni miste non esistono, come dimostra anche la recente esperienza latino-americana.
Il problema è che questo modello non può essere esportato. Ma certamente può essere difeso. E per difenderlo ci vuole un esercito efficiente e moderno, sottoposto a una lungimirante guida politica.
Finora abbiamo contato essenzialmente sui soldati e sulle armi degli Stati Uniti. Quell’epoca è finita.
È stato il realismo a portare Trump a firmare gli accordi di Doha e Biden a dare di essi una puntuale (anche se non certo efficiente) attuazione. I costi della lunga presenza occidentale erano diventato troppo alti, a fronte di una situazione che si presentava ormai irrimediabilmente compromessa sotto il profilo del controllo politico e militare, del funzionamento della macchina statale, della convivenza tra etnie diverse e della sicurezza quotidiana. Così come è stato il realismo a consigliare l’Amministrazione USA di tenersi a distanza di sicurezza dallo scenario libico.
Questo realismo suona anche come un appello all’Europa.
In Libia abbiamo constatato l’assenza dell’Europa, ovvero, paradossalmente, del soggetto politico più esposto alle ricadute geopolitiche e sociali del caos libico e, in generale, nordafricano. La debolezza politica dell’Europa risulta ora, ovviamente, enfatizzata, anche dalla crisi afgana. Quando Borrell paventa il rischio del protagonismo sino-russo (e iraniano, non dimentichiamo) nel «crocevia dell’Asia centrale» sta dando la più plastica rappresentazione della debolezza europea. L’UE ora si propone di dialogare con i talebani, facendo leva sui fondi UE allo sviluppo. È un modo vecchio di affrontare il problema. L’Afghanistan talebano non è un paese islamico post-coloniale in cerca di sostegno e di legittimazione, bensì un esperimento d’avanguardia che intende svolgere un ruolo centrale nella umma, anche facendo leva sugli aiuti economici e militari che possono venire da altre potenze ostili all’Occidente o in competizione con questo.
Agganciarsi a Francia e Germania - Senza un esercito non si è in grado di difendere gli interessi e i valori dell’Europa e tanto meno di essere presi in considerazione nella grande partita geopolitica che si sta giocando nella regione MENA.
Adesso ci saranno decine di convegni e progetti di ricerca sulla crisi della democrazia, sull’impossibilità di esportare il modello occidentale, sui limiti del costituzionalismo e così via. Va bene. Speriamo che ci sia anche spazio sulla questione costituzionale più urgente: la costruzione di una forza militare europea, all’altezza del livello della scienza e della tecnologia dei Paesi dell’Unione. Molti passi si sono fatti in avanti ultimamente su questo fronte. Ma è chiaro che ora occorre imprimere un’accelerazione brusca. Si tratta una questione “costituzionale” nel senso originario dell’espressione: l’Europa, con la sua cultura dei diritti umani e del pluralismo politico e religioso, semplicemente non “sta” in piedi, non regge, senza una politica estera e senza un proprio esercito. Come sappiamo, cercare di mettere tutti d’accordo su questo fronte è complicato. La polity sovrastatale (Commissione, Corte di Giustizia) si è sviluppata intorno al sistema di accordi interstatuali (Consiglio dei Ministri), ma non è mai riuscito a espandersi in questo, a impregnarlo e a mitigare le sue dinamiche interstatuali, perché queste ultime vengono lette dal sistema come un principio ordinatore, ovvero come condizione necessaria per la propria stessa esistenza. Ragion per cui, nelle trattative vince chi difende quel principio, fosse anche il Paese più piccolo. E allora l’Italia, terza (ma per alcuni seconda) economia dell’Unione e Paese fondatore, deve agganciarsi ai cavalli trainanti, vale a dire a Francia e Germania, anche accettando un ruolo secondario, ma tenendo presente le straordinarie competenze che il sistema-Paese può mettere in campo sia sul fronte tecnologico e industriale (qui naturalmente bisogna lavorare per un’integrazione sistemica per evitare duplicazioni, sovrapposizioni e sprechi), sia sul fronte geopolitico (basti pensare alle nostre relazioni storiche nell’area MENA).