di Fabio Marco Fabbri
A una prima osservazione la scelta di Joe Biden di sgomberare dall'Afghanistan pare abbia lasciato campo libero alla penetrazione delle avidità cinesi, ma così non è. Infatti, la Cina non aveva bisogno dello sgombero Usa per approdare economicamente a Kabul, in quanto da tempo è presente e opera nel Paese. È chiaro che i rapporti tra il Governo cinese e i gruppi islamisti afghani vanno oltre quella che può apparire una "overdose" di promesse tecnologiche ad apparente costo zero per gli afghani.
Già da tempo Pechino comunica ai talebani l'assoluta disponibilità a effettuare investimenti in infrastrutture, con lo scopo di creare corridoi di fiducia. Anche se molta opinione pubblica immagina che la Cina possa intraprendere una corsa verso l'El Dorado del "seminterrato" afghano dopo l'uscita definitiva degli statunitensi, se mai ci sarà, ricordo che i cinesi non sono stati mai ostacolati dalla presenza americana nei loro affari, dal momento che da tempo si sono aggiudicati il diritto di gestire una delle più importanti miniere di rame del mondo a Mes Aynak, a 35 chilometri a sud di Kabul, e hanno ottenuto una partecipazione allo sfruttamento dei giacimenti petroliferi.
Tuttavia, in un articolo pubblicato dal New York Times, l'ex colonnello militare cinese, Zhou Bo, ha affermato che "la Cina è pronta a colmare il vuoto lasciato da Washington". Infatti, anche da una superficiale analisi appare evidente che la "torta" afghana è estremamente allettante, in quanto l'Afghanistan è il più grande "serbatoio" non sfruttato al mondo e alcune risorse strategiche, come il litio, sono per la Cina di cruciale importanza.
Inoltre, la Cina dal 2016 è il regista del programma dalla "Nuova Via della Seta"; questo gigantesco progetto cinese ha lo scopo di costruire infrastrutture fuori dai propri confini per un collegamento commerciale con i Paesi euroasiatici. Tuttavia, Pechino a oggi ancora non ha investito somme importanti in Afghanistan; così l'ex colonnello Zhou Bo ha specificato che queste penurie di investimenti sarebbero giustificati essenzialmente dal fatto che il Paese era stato finora "sotto l'influenza" di Washington. Liberato dall'ingombrante tutela Usa, il Paese potrebbe ora offrirsi senza riserve alla Cina.
Pechino ha chiaramente avviato negoziati mirati a un rapporto cordiale con i talebani. Infatti, a fine luglio, il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due del movimento islamista radicale, è stato ricevuto ufficialmente e con grandi ossequi, da Wang Hi, ministro degli Esteri cinese e consigliere di Stato. Dopo la vittoria talebana, la Cina ha dichiarato di voler "rispettare la scelta del popolo afghano" e sperare in una "cooperazione amichevole" tra i due Paesi. Ma ciò non significa che Pechino si avventi subito sulle risorse naturali afghane, in cambio di qualche prestito per sviluppare le infrastrutture; la Cina dovrà prima adottare un sistema di tutela e un approccio difensivo che possa preservare la propria sicurezza generale.
In effetti, la priorità principale del "gigante asiatico", che ricordo confina con l'Afghanistan con un lembo di terra di circa 70 chilometri stretto tra il Pakistan e il Tajikistan, è quello di tutelarsi dalla concreta minaccia che il terrorismo islamista si possa diffondere nei propri territori. Tale rischio oltre a essere di carattere generale, quindi prettamente come azione terroristica contro uno Stato, ha anche una valenza di carattere specifico, in quanto è noto che la Cina ha, in ogni occasione, esercitato repressione contro gli uiguri, che vivono a poche centinaia di chilometri dal confine afghano e che sono una minoranza musulmana perseguitata dalle autorità cinesi che la dipingono come un serbatoio di pericolosi estremisti islamici.
Proprio su questo "fronte" la Cina vorrebbe rivedere il compromesso raggiunto con i talebani negli anni Novanta. All'epoca, i militanti separatisti uiguri avevano allestito campi di addestramento in Afghanistan con l'aiuto di Al-Qaeda e Pechino aveva ottenuto dai talebani la garanzia che questi attivisti islamici si sarebbero esentati dal commettere azioni violente in Cina, la quale in cambio aveva iniziato a investire nel Paese.
A distanza di vent'anni Pechino non è più solo preoccupata per il rischio di contagio jihadista in Cina, anche alla luce della attuale incapacità talebana di controllare lo Stato, ma anche della diffusione del terrorismo islamiconegli altri Paesi confinanti come il Pakistan o il Tagikistan. Il timore cinese oggi è quello della consapevolezza che una diffusione del jihadismo nell'area possa avere un effetto destabilizzante in quei Paesi in cui Pechino ha fatto grossi investimenti in infrastrutture legate al mega progetto della "Nuova Via della Seta". Un rischio che la superpotenza asiatica, che ha negoziato tra i primi con i jihadisti, non può permettersi.