di Antonio Saccà
La convinzione alla quale Leopardi tenne fede sta nel fluire al Nulla di ciò che esiste e nessun risarcimento, neanche con la gloria, perché la gloria è incertissima e destinata a svanire, straordinaria che sia. La Naturariassorbe la Storia, le civiltà sono ombre di passaggio sulle quale spunteranno erbacce e crisantemi. Il volto conoscibile del Nulla è la Natura, al cospetto della quale l’uomo e le sue imprese costituiscono inezie che la Natura non considera o maltratta per indifferenza. La Natura non è al servizio dell’uomo. La Natura non è concepita e fatta per l’uomo. Nessuna armonia tra Uomo e Natura, la quale ci distrugge ignorandoci. Del resto non sappiamo come mai esiste la Natura, meno ancora sappiamo perché e come mai esistiamo noi. Siamo inspiegabili ciascuno per sé, l’uno all’altra, ed insieme, uomini e Natura, né vi è alcuno al quale chiedere. Il Nulla in Giacomo Leopardi è completo, pieno, tambureggiante, non ha uscita. Chiude l’uomo dal principio alla morte, offuscandolo durante la vita. L’uomo non sa come mai esiste quel che esiste, non sa perché esiste come uomo, fatica a vivere, e dopo tanta fatica, la morte eterna.
Taluni, rari, uomini, è il caso di Giacomo Leopardi, sono misuratori della condizione umana. Egli era nato per l’amore, l’affetto, la stima tra persone valenti, ebbe a che fare con cattolici che chiedevano la fede per consentire di vivere, progressisti che non si contentavano di volere libertà e, talvolta, giustizia ma esigevano professione di mirabolanti secoli prodigiosi, uomini inetti che proclamavano chi sa quale genio a uomini della loro parte, e Leopardi si schifò e vagheggiò catastrofi perché cessasse la bugiarda, malvagia recita degli uomini, i quali non adempivano l’unica scelta che li avrebbe onorati, confortarsi l’un l’altro e ammirare il vero ingegno non frettoloso, se mai suscitatore di idealità. Ne ebbe contumelie da ogni lato, e morì disgraziato, come volevasi dimostrare. Giacomo Leopardi, percepì la condizione dell’esistenza come pochissimi in quanto ad approssimazione alla realtà, alla vita quale è. Ritenne nemica la Natura e concepì che dovremmo aiutarci vicendevolmente, da uomo a uomo, tutti quanti. Fu un vagheggiamento, ma di questi sogni non è il caso di fantasticarne, più sognabile che la Natura ci soccorra, ma pure questo è sogno da evitare, o che ci aiuti Dio, sogno dei sogni, in ogni caso è un sogno che l’uomo, universalmente, aiuti l’uomo. Ce ne andiamo nell’aldilà, per dire, delusi del prossimo così tanto che perfino la crudelissima Natura ci sembra perdonabile. Ma, così giudica Leopardi, effettivamente spietata è la Natura, giacché è per natura che moriamo, ci ammaliamo, però è l’odio o il disamore dell’uomo verso l’uomo che accresce i mali della Natura. Un uomo amato e che ama sopporterebbe meglio la crudeltà della Natura.
Giacomo Leopardi fu un pensatore onesto. Il che lo pone tra i pochissimi pensatori degni di stima. Altri pensatori lo superano in fantasia costruttiva e nell’efficacia storica delle loro teorie, e di certo nell’elaborazione di sfere determinate della filosofia. Leopardi riteneva che vivere sia distrazione dalla morte, lo hanno detto altri uomini onesti, come Blaise Pascal, ma in senso opposto. Blaise Pascal e Giacomo Leopardi, l’uno spregiando la distrazione dei fini mondani per volgersi all’eternità e a Dio, l’altro esaltandola e nominandola come “illusione”, ideali, Leopardi li giudica indispensabili distrazioni dal saper di morire. In entrambi è la morte a sottomettere la vita. Come è realmente. Pascal se ne tutela con Dio, Leopardi l’annebbia con le “illusioni”, gli “ideali”.
Rarissimi i pensatori onesti, ripeto. I pensatori, anche i massimi, o proprio loro, immettono nei loro sistemi fantasticherie da follia, spesso rendono la filosofia religione, la religione filosofia, suscitando una confusione inaccettabile, se restiamo legati allo spirito della verità. Blaise Pascal comprese sentendola la minimità dell’uomo e ricorse a Dio per offrire all’uomo salvezza, ritenendo che le Scritture dimostrassero a sufficienza che Dio esiste e Cristo ne è Figlio. Giacomo Leopardi comprese sentendola la minimità dell’uomo ma non credette né in soluzioni religiose né in soluzioni mondane, tutto ciò che esiste è destinato a morire e a vivere dolorosamente, non resta, non resterebbe che proteggerci tra noi uomini così sventurati. Friedrich Nietzsche, loro prossimo, taglia di netto la questione: perché dolore, morte, divenire contro la vita? La vita si nutre di tutto purché si affermi la massima potenza edificatrice di civiltà come una fiamma che brucia il letame che la consente. La potenza creativa è la via di scampo del dolore. Ma pur di affermare la vita all’estremo Nietzsche precipitò nell’eterno ritorno della vita identica a se stessa, un’assurdità. Ma è appropriata la sua convinzione, non rassegnarsi al nulla e al dolore, ma fare civiltà, anche se mortali.
Uomini come Leopardi, De Sade, Nietzsche si evidenziano per non aver costruito illusionismi o nascosto la verità sulla condizione umana. Ma Nietzsche con l’eterno ritorno all’identico falsa la realtà, quindi non apparterrebbe ai pensatori “onesti”, veritieri. O non del tutto. Nella estesa poesia “La Ginestra o il fiore del deserto”, Leopardi manifesta radicalmente la sua concezione sulla Natura. La Natura costituiva un suo problema dominante. Leopardi viveva sotto il dominio della sofferenza. L’esistenza è un passaggio da dolore a dolore per concludersi nella morte. Chi ne era responsabile? L’uomo? Ma è l’uomo che patisce! Dunque, malattie, rovine, svanire del tempo non vengono dell’uomo, vengono dalla Natura, la quale, pertanto, non è la madre che soccorre i figli umani, bensì matrigna. Per quanto Leopardi è celebre per la concezione della Natura matrigna, Egli non ne inventò l’espressione, che è del Barone D’Holbac, il quale, in epoca illuminista, ebbe una convinzione tragica sulla malvagità della Natura. Leopardi è da tempo a Napoli, con Antonio Ranieri, e scorgeva il Vesuvio, un vulcano, dunque fonte di rovina. Dal Vulcano Leopardi amplia la visione, il vulcano è la Natura, della quale basta un moto da poco a distruggere civiltà e uomini. Certo, la Ginestra, ossia la Vita cresce anche sui fianchi del Vulcano, ma, dicevo, basterebbe un minimo risveglio dello “sterminator Vesevo” e ginestra, edificazioni, uomini finirebbero nella morte.
Perché mai Leopardi accusa specialmente la Natura di provocare la disgraziata condizione dell’esistenza umana? Egli non poteva ingannarsi sulla malvagità anche dell’uomo, né si inganna. Ma è contro la Natura che massimamente inveisce, è la condizione naturale dell’uomo che lo affligge. Perché? Perché tale condizione naturale è immutabile. E nessuna modificazione sociale riuscirà a cambiarla. Questa impossibilità a cambiare la Natura, questa soccombenza dell’umanità nei confronti della Natura rende, per Leopardi, di scarso rilievo il Progresso. Il Progresso non eliminerà le malattie, non eliminerà la vecchiaia, non eliminerà la morte, non eliminerà il Nulla. Per tali situazioni non basta il progresso della scienza e della conoscenza, occorre il vicendevole confortarci in quanto imprigionati nella gabbia dissolutrice che è la vita. L’accusa all’uomo è indiretta, l’uomo viene accusato di non capire la distruttiva vicenda che è obbligato a vivere, se vuole vivere. L’uomo viene indirettamente accusato di malvagità per non consolare e ricevere consolazione tra uomini resa necessaria per questa comune situazione sciagurata. Se la Natura è matrigna, l’uomo dovrebbe essere magnanimo con l’uomo. Non è che l’uomo sia migliore della Natura ma potrebbe volgere alla fraternità se stesso, cosciente della sciagurata realtà in cui naufraga nascendo. Alla Natura sarebbe inutile chiedere fratellanza. Leopardi suppone addirittura che l’esaltazione del Progresso potrebbe occultare i mali dell’umanità. È il tratto che esaspera Leopardi, la concezione che non vede il Male o lo vede in vantaggio del bene. Questa concezione, propria dell’epoca, e della quale il Faust di Goethe e la filosofia di Hegel costituivano i pilastri, e presente anche nel cattolicesimo provvidenziale (Alessandro Manzoni), esulcerava Leopardi. Talvolta lo devastava un rabbioso sentimento distruttivo, di sé e del tutto, una volontà di catastrofe, di annientamento, attuando volontariamente la destinazione naturale al Nulla di quanto esiste. Sì, la realtà è diretta alla dissoluzione, tanto vale accordarsi alla dissoluzione, consentire all’affermazione del Nulla, ma non più come nel giovanile “Infinito”, con un naufragio “dolce”, ma rabbioso, acrimonioso, deluso, il volontario distruggersi nella sorte distruttiva, accrescere il Gran Nulla del proprio nulla. “Al gener nostro il fato/Non donò che il morire. Ormai disprezza/ Te, la natura, il brutto/ Poter che ascoso, a comun danno impera/E l’infinita vanità del tutto”(A se stesso).
Eppure Leopardi lottò contro l’infinita vanità del tutto. La sua concezione fondamentale, che occorrono “ illusioni” per riuscire a vivere sorge dal bisogno di oscurare l’infinita vanità del tutto. E Leopardi completerà il tentativo di vincere (oscurare) la coscienza del Nulla con la fratellanza, la consolazione vicendevole, la massima “illusione”. “La Ginestra o il fiore del deserto” è la composizione poetico-filosofica più sistematica di Giacomo Leopardi (insieme al “Canto di un pastore errante nel deserto dell’Asia”). Leopardi ha una insopprimibile ossessione di verità, non accetta che l’uomo mentisca sulla condizione di se stesso, sulla vanità del tutto, sulla soccombenza al potere della Natura. E vorrebbe che l’uomo, consapevole di questa desolante, comune condizione, si volgesse all’altro uomo amorevolmente. In un vicendevole, insisto, aiuto, non rimproverando o avversando l’uomo per i propri mali, anzi, tutti insieme, contro la Natura. Illusione vitalistica e fraternità soccorrevole sono i rimedi che possiamo, e dovremmo, suscitare, per riuscire a vivere, non a sottrarci al Nulla, impossibile, ma per riuscire a vivere dentro il Nulla, almeno. Antonio Ranieri era l’anti-Leopardi, esuberante, giovane, nella vita, in salute. Ranieri si innamora dello spirito di Leopardi, lo comprende, lo sente, e sceglie di proteggerlo, accudirlo, poveri entrambi, in ogni caso sopravvissero, e Leopardi finì i giorni da Ranieri, che gli restò amico devoto anche dopo la morte di Giacomo.
Ranieri ebbe maggior fortuna con le vicende risorgimentali, patriota qual era. Debole nel corpo, ma ferreo nell’animo, Leopardi non accetta l’ottimismo pseudo tragico del cattolicesimo che rende l’uomo colpevole, Dio buono, e la Provvidenza risolutrice del male; né accetta il progressismo che era certo di chi sa quale sorte sempre più fausta per l’umanità, ignorandone il costo. Leopardi voleva il bene non meno degli altri ma non a prezzo di falsità e nascondendo il male, meno ancora nascondendo la morte ed il nulla. Dentro la cornice del Nulla, che l’uomo soccorra l’uomo, ma non mentisca sulla condizione umana. Né sul male che l’uomo infligge all’uomo, che la Natura infligge all’uomo. Leopardi concepisce le “illusioni” non come menzogne, ma piuttosto ragioni che fomentino la voglia di vivere, fingiamo che valgono pur sapendo che sono destinate al Nulla. Possiamo vivere sapendo di morire e senza mascherarci la dissoluzione e senza fantasticare chi sa quali speranze in cielo ed in terra? Possiamo; se ci illudiamo, ci illudiamo di ideali: la gloria, l’amor di Patria, l’amore, ci esaltano, ci traggono, ci fanno smemorare del Nulla, anzi, pur coscienti del Nulla, ci infiammano di potenza, di energia per vivere, mirare ad uno scopo, ma sapendo che le illusioni sono illusioni, ed Nulla vincerà. A che vale sapere che il Nulla vince se è preferibile forgiare illusioni per vivere? Non è più sensato ignorare il Nulla e dedicarsi a vivere? Certo: ma come possiamo ignorare il Nulla, se esiste? Il perire dell’esistenza non é una invenzione di Leopardi, è la verità dell’esistenza. Illuderci, sì, non mentendo! Sarebbe mentire supporre un progresso illimitato senza la visione del Nulla, sarebbe mentire supporre un Dio che è inconoscibile.
A giudizio di Leopardi, è onesto affermare, dentro il Destino del Nulla, la voglia di vivere fraternamente a conforto vicendevole. Leopardi esalta la giovinezza, l’età nella quale il “vero” non è apparso alla coscienza, l’età in cui le passioni illudono (colmano) di vitalità l’esistenza. Ma allorché il “vero” ossia la consapevolezza del Nulla entra nella nostra visione, le illusioni (la volontà di vivere) ce le dobbiamo costituire deliberatamente fingendo che valgono pur finendo nell’annientamento. Le “illusioni”, opportuno insistere, non sono menzogne. Non è menzogna volere gloria, non è menzogna amare, non è menzogna l’arte, sono, piuttosto, coperture del Nulla, scopi appassionanti per dare significato all’esistenza pur sapendo che l’esistenza non ha significato e si dissolve. Menzogna sarebbe se, poniamo, dicessimo che la morte non esiste o la Natura è buona. Non vi è in Leopardi la minima disposizione a lasciarsi andare, a debilitare la qualità della sua opera quasi che fosse vano perfezionarsi. L’esistenza fluiva nel Nulla mai però svilirne la qualità, e mai ricorrere a ritrovati di salvezza come la religione o il progresso. Leopardi non fu progressista, non fu credente, non immaginò di “salvare” l’uomo né con la fede né con la storia. Non vi é salvezza, vi é morte; dissoluzione; inspiegabilità, il che non impedisce; tutt’altro, di soccorrere l’uomo, da uomo ad uomo.
Non manca, tuttavia, in Leopardi uno scoramento netto, la convinzione di una dissoluzione micidiale, l’annichilirsi dell’individuo, dei popoli; dell’intera storia. Ma rimaneva il dilemma, che fare durante la vita pur sapendo di morire; individui e popoli? Illudersi ma non mentire! Illudersi; concepire nobili, appassionanti scopi, non mentire ossia non concepire salvezze e rimedi che non esistono. Talvolta, però, Leopardi scorge soltanto la Morte. E sembra voler sorridere o spregiare chi reputa possibile non soltanto la “salvezza” ma il continuare la vita. È così, ma non è contro la vita, è contro il vivere sostenuto dalla menzogna, Egli è per un vivere sopportando la coscienza del Nulla, una volta finita la “bella giovinezza”. Questa fu l’esistenza e l’opera di Giacomo Leopardi. Sì, vi è anche la negazione radicale della vita, il dolore contro la vita, in Leopardi, ma vi è soprattutto l’amore per la vita mediante le “illusioni” a favore della vita.
Giacomo Leopardi nacque a Recanati nel 1798, dal Conte Monaldo e dalla Marchesa Adelaide Antici. Il padre era, al pari della madre, cattolicissimo, si distinse nell’avversione alla Rivoluzione Francese, allorché i francesi vennero nelle Marche, Stato Pontificio. Fu, Monaldo, appassionato di letture ed acquirente di libri; Adelaide Antici governava l’economia domestica con severità, una severità che manifestò anche nei rapporti con i figli; ed il sensibile, affettivo Giacomo la patì avversando poi sempre l’austerità sacrificale, il rendere negativo il piacere. Per disposizione e per sottrarsi all’eccessiva austerità familiare il piccolo Giacomo fa lega con i fratelli Carlo e Paolina; gioca, inventa storie e si volge alla lettura; anzi: allo studio. Uno studio accompagnato da scritti suoi. È precocissimo e sfrenato, impara il greco ed il latino, fa saggi sull’astronomia, sugli errori degli antichi, traduzioni, cura l’edizione di testi , e viene pubblicato, compone anche tragedie che dona a Monaldo. Nel mentre, circostanza che di sicuro colpì la sua mente, della continua nascita di fratelli, taluni morirono presto, e l’evento della morte indubbiamente Giacomo lo percepì. Lavora incredibilmente, quel che scrive e traduce in quei giovanili anni è straripante, e pubblica, dicevo, e su riviste o con editori importanti.
Ma la salute gli vacilla. Vive nelle strettoie di Recanati, nella freddezza di rapporti familiari specie con i genitori, e il giovane Leopardi ha in mente l’universo, gli spazi, la fama. È il periodo della Restaurazione, il vecchio potere monarchico-religioso ha ripreso il potere, ma le idee liberali, democratiche, serpeggiano. Leopardi è asfissiato dalla mentalità reazionaria Trono-Altare, non mostra tendenze religiose, la sua cultura predilige il mondo greco e romano. E si innamora, sente l’animazione che lo renderà infelice l’intera vita e per la quale sarebbe appropriato vivere, l’amore. Una giovame cugina del padre, Gertrude Cassi, lo trae, lo trae al punto che svaniscono gli studi, e Leopardi proverà su se stesso il bisogno di vivere non soltanto conoscere e scrivere. Ma la vita, dolorosissimamente, gli sfuggirà di continuo. Anche se ha già scritto in versi è negli anni a iniziare dal 1818 che Leopardi compone i testi poetici che poi genereranno i “Canti”, nel 1818 scrive le canzoni “All’Italia” e “Sopra il monumento di Dante”. È un Leopardi idealista, avvinto alle glorie patrie di cui vorrebbe la rinascita. Leopardi studiava greci e romani e oltrepassa lo spirito reazionario familiare e dell’epoca. Soffre agli occhi, e non ne guarirà. Tenta la fuga da Recanati. La poesia ora lo invade. Scrive “Le ricordanze”, scrive “L’Infinito”, scrive la canzone “Ad Angelo Mai”, illustre cardinale e filologo , scrive “La sera del giorno festivo”. A parte altre composizioni poetiche, traduzioni, commenti. Rilevante è la partenza con lo zio materno Carlo Antici, è il 1822. A Roma, dove si reca, non riesce ad ottenere impiego, conosce personalità del mondo culturale e sociale, von Niebuhr, storico, von Bunsen, diplomatico, visita la tomba di Torquato Tasso, e torna nell’odiatissima Recanati e nella angustiantissima famiglia. Il 1824 è una data memorabile nell’esistenza di Giacomo Leopardi e del pensiero moderno.
Da questo malatissimo scorcio di uomo, deformato nel corpo, perso nella vista, esposto ad ogni danno, costretto alla cittadina provinciale, sorvegliato, non sufficiente, inadattissimo a qualsivoglia adempimento sociale viene alla luce una delle opere essenziali della società moderna, un’opera che decifra quella che sta per essere la società moderna, appunto, e la filosofia di Giacomo Leopardi, viene alla luce il testo con i dialoghi delle “Operette Morali”, testo che sarà completato negli anni a venire. L’uomo vive per il piacere, che raggiunge nella cessazione del dolore, nell’attesa di un futuro migliore, ma la vita è sottoposta all’affanno; e quindi alla morte e alla completa dissoluzione cosmica; l’universo può ricostituirsi, a differenza dell’uomo che perduta la vita non rinasce e perduta la giovinezza spegne la forza vitale; del perché e come mai esiste la Natura ed esistiamo noi sconosciamo la ragion d’essere, il progresso non risolverà l’enigmaticità della condizione umana; la Natura ci annichilisce; la scienza inaridisce, la verità consiste nel saper di morire, ci restano le “Illusioni” se siamo ancora capaci di sognare; fantasticare, agire appassionatamente e non ci facciamo dominare dall’utilitarismo; dal denaro; dal commercio; dalla conoscenza adattata alla gente qualsiasi.
Sto vagliando le “Operette Morali”, nei vari accrescimenti e la successiva produzione poetica, in quanto pensiero di Giacomo Leopardi. Come poeta Leopardi é eminentemente lirico, un parlare di sé a sé, una interiorizzazione assorta; malinconica, una musicalità che sussurra, impeti disperati, solitudine, infelicità con slanci di gioia vagheggiata e ricaduta nella desolazione; e tuttavia sete di amore, e paesaggi; e cieli; e luna; e stelle, e alberi; e vento; e figure umane che interrogano senza avere risposta; un linguaggio morbido; terso, dolcemente dolente, carezzativo, a momenti inasprito e tragico. Il passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, per dirne qualcuna, e le poesie ultime: Palinodia al Marchese Gino Capponi, Il tramonto della luna, “La Ginestra” o il fiore del deserto, sono tra le conosciutissime composizioni di Giacomo Leopardi. Non ebbe fortuna in vita, andò ramingo; non famoso se pur stimato. Non cattolico; non liberale; non reazionario; cogliendo dell’esistenza un bene che gli uomini non attueranno, l’aiuto vicendevole, un male che attueranno, uomini e Natura, fingendo di non compierlo e assoggettati a speranze indimostrabili, ci vorranno decenni e decenni perché Giacomo Leopardi sia riconosciuto un ardimentoso pensatore che resse la vista reale della condizione umana, eterna e moderna.
Dopo varie solitarie peregrinazioni incontrò Antonio Ranieri che lo curò filialmente. Ed è con Ranieri alla morte, il 14 giugno del 1837. Per gran parte dell’esistenza Leopardi si tenne appresso un brogliaccio di pagine cucite con lo spago che Egli accresceva e ordinava. È lo “Zibaldone”, un’opera dove scrisse di tutto e il lettore può farne tesoro. Anche Friedrich Nietzsche osò capovolgere l’infelicità in potenza vitale che la vincesse, ma la potenza vitale di Nietzsche fu spietata. Il solo pensatore che pose in atto la volontà di vivere quanto maggiore è la sofferenza del vivere fu un musicista, Ludwig Van Beethoven. L’antidoto alla coscienza del Nulla in che risiede? Nel “volere” la Gioia!