di Gabriele Minotti
C’è aria di “fronda” a via Bellerio. Le Amministrative di domenica segneranno il futuro del partito: l’autorità di Matteo Salvini è in discussione e il Capitano rischia seriamente l’ammutinamento. Nonostante i tentativi di smorzare le polemiche e di dissimulare il disaccordo sempre più evidente tra l’ala moderata (o “governista”) del partito, guidata da Giancarlo Giorgetti con l’appoggio dei tre governatori del Nord, e quella più radicale (o “movimentista”), capeggiata proprio dall’attuale segretario, i dissidi non si sono affatto placati: al contrario, hanno raggiunto un livello inimmaginabile fino a non molto tempo fa.
Si è addirittura parlato di una lite furibonda tra Salvini e Giorgetti, giorni fa, proprio nell’ufficio di quest’ultimo, al ministero dello Sviluppo economico: le grida si sarebbero udite anche nei corridoi del palazzo. Il “seme della discordia” sarebbero i sondaggi impietosi: la Lega viene data ovunque in calo e, soprattutto, si teme che il crollo più vertiginoso si verificherà proprio al Nord, dove il Carroccio ha sempre fatto incetta di consensi. Il rischio concreto è quello di un sorpasso da parte di Fratelli d’Italia, che è esattamente ciò che gli “istituzionali” non vogliono. Temono, infatti, che l’atteggiamento estremista e ribelle non pagherà in termini elettorali, ma finirà per alienare i consensi, attuali o potenziali, dell’elettorato moderato, data la presenza di un partito (Fratelli d’Italia) al quale l’estremismo e la collocazione anti-sistema è più connaturale, anche per ragioni storico-culturali, e che per questo riesce ad attrarre quel tipo di voti con maggior facilità.
L’ala moderata della Lega vorrebbe un cambio di passo rispetto alla linea salviniana, e non perde occasione per prendere le distanze – sia pure con una certa diplomazia e un certo bon ton istituzionale – dal segretario e dalla sua strategia. Tuttavia, è solo due giorni fa che il ministro Giorgetti, in una lunga intervista rilasciata a “La Stampa” ha esternato senza mezzi termini tutte le sue perplessità e il suo scetticismo verso Salvini. Anzitutto, non è mai stata compresa la scelta di contestazione rispetto alle misure di prevenzione rispetto al Covid e relativamente alla “libertà vaccinale”, giudicata troppo vicina a quella dei gruppi No-vax. L’impressione che tale scelta ha suscitato – anche tra la base, dove ben il settantacinque percento degli elettori leghisti sarebbero favorevoli all'obbligo vaccinale – è quella di un disperato tentativo di raccattare voti (o di sottrarli alla Giorgia Meloni, dipende dai punti di vista) sacrificando un principio sacrosanto come il senso di responsabilità verso se stessi e verso gli altri, che dovrebbe caratterizzare ogni comunità.
In secondo luogo, le critiche di Giorgetti vertono sulla scelta dei candidati sindaco del centrodestra nelle principali città al voto, a partire da Milano e Roma. A Milano – dice il ministro per lo Sviluppo economico – Luca Bernardo rischia di non arrivare al ballottaggio ed è praticamente certa la vittoria della sinistra; a Roma, la candidatura di Enrico Michetti (giudicato da molti troppo debole, oltre che privo di carisma e di prospettive) è stato un errore grossolano, che la Lega avrebbe commesso solo per assecondare Giorgia Meloni.
I candidati “non li ho scelti io”, sottolinea il ministro leghista, quasi a voler marcare la distanza dal Capitano, reo di essere troppo accondiscendente con la leader di Fratelli d’Italia e di prendere decisioni affrettate. Tutto questo, oltretutto, poco dopo il clamoroso endorsement (o quasi) dello stesso Giorgetti a Carlo Calenda, in corsa per il Campidoglio e la scelta di alcuni dirigenti romani di Forza Italia di esercitare il voto disgiunto in favore di quest’ultimo. Il leader di Azione, infatti, lungi dall’essere percepito come il “candidato dei Parioli”, è l’uomo che una parte della destra vorrebbe e che, si stima, finirà per attirare molti consensi “in uscita” da quel mondo: cioè, da parte di quegli elettori di centrodestra divenuti ormai insofferenti al sovranismo spaccone della Meloni e alla demagogia sconclusionata di Salvini e che non si sentono più rappresentati da una Forza Italia paralizzata e apparentemente incapace di rinnovarsi e tornare a essere competitiva nel mercato politico.
C’è poi la questione, ancora più spinosa, del Quirinale. Giorgetti e l’ala moderata vorrebbero Mario Draghi al Colle, e conseguenti elezioni anticipate. Più che altro – dice Giorgetti – perché difficilmente i partiti lo lascerebbero a Palazzo Chigi fino al 2023 (lui, dice, lo vorrebbe lì per sempre), nonostante (o, magari, proprio per quello) senza l’ex governatore della Banca centrale europea i soldi del Recovery Plan siano destinati a fare una brutta fine.
“Li butteranno via o non li sapranno spendere”, sottolinea il ministro, lasciando intendere, con la terza persona plurale, che la sua permanenza al Governo non è legata alle decisioni di Salvini ma alla presidenza di Draghi. Sulla partita per l’elezione del nuovo capo dello Stato, Giorgetti insiste e lancia affondi impietosi al segretario del suo partito: Silvio Berlusconi ha poche possibilità, essendo un personaggio divisivo e Salvini rilancia la sua candidatura, solo per evitare di parlare di cose serie: difficilmente lui e la Meloni accetterebbero un Sergio Mattarella bis per permettere a Draghi di completare il mandato. Su quest’ultimo punto Giorgetti lancia la stoccata più pesante: fosse per me – dice – lascerei che a occuparsene fosse Umberto Bossi. Come a dire che Salvini non ha la stoffa per trattare una questione tanto importante.
Ora, chi ha familiarità con le dinamiche interne alla Lega sa benissimo che quello del Senatur è diventato un nome impronunciabile: un po’ per non dare adito a nostalgie e un po’ per la rottura insanabile tra il fondatore e Salvini. In ogni caso, Giorgetti si dice convinto che la scelta più saggia sia quella di mettere Draghi al Quirinale e andare a elezioni. Probabilmente, lunedì sarà l’alba di un nuovo giorno per la Lega. Se il fiasco elettorale dovesse verificarsi – come tutti i sondaggi sembrerebbero indicare – e la Meloni dovesse effettuare il tanto temuto “sorpasso”, l’ala moderata del partito passerà alla resa dei conti. Anche se non si cercasse di detronizzare Salvini mediante un congresso, di certo si rivendicherà maggiore collegialità, sia nella determinazione della linea politica che, soprattutto, nella partita per il Quirinale.
Tutto questo, in un momento di evidente difficoltà per il leader del Carroccio, anche in seguito allo scandalo che ha recentemente coinvolto il suo principale stratega per la comunicazione, Luca Morisi, al quale Salvini deve buona parte del suo successo e della sua popolarità. Il segretario di errori ne ha fatti a iosa negli ultimi anni: dal tentativo di ingraziarsi i gruppi No-vax piuttosto che l’integralismo religioso (Congresso di Verona docet), fino alla scelta di candidati sindaco deboli e con scarse possibilità di uscire vincitori dalle urne; dalla progressiva riscoperta dei toni radicali e antisistema dei primi tempi, fino all’atteggiamento controverso e altalenante nei riguardi del Governo di Mario Draghi (sempre più stanco dei capricci e delle impuntature di Salvini) e alla rincorsa della Meloni. Non c’è da meravigliarsi che la Lega sia in calo, così come la popolarità di Salvini. A essere andati perduti non sono i consensi di coloro che sono passati tra le schiere meloniane, i quali, comunque, hanno aderito alla Lega solo sull’onda emotiva suscitata dal salvinismo della prima ora: più che leghisti erano salvinisti che, con l’appoggio all’Esecutivo di Draghi, si sono riscoperti meloniani.
Quel che conta, per loro, è lottare contro qualcosa e sognare improbabili rivoluzioni “nazionalpopolari”. I voti persi dal Carroccio sono confluiti perlopiù nel bacino dell’astensionismo: la parte borghese e fondamentalmente conservatrice della Lega, che in Draghi vede una figura rassicurante, l’immagine della competenza e dell’equilibrio istituzionale, vuole un partito capace di coniugare la libertà con l’ordine e la stabilità, non un carrozzone di gente improvvisata e raccattata chissà dove. Non sa che farsene delle intemperanze da Papeete, degli slogan urlati da Tor Bella Monaca, delle battaglie perse come quella contro il vaccino e delle farse come quella dei minibot di Claudio Borghi.
Certo, ha accettato il “celodurismo” bossiano e le uscite a dir poco incongrue di Mario Borghezio o di Giancarlo Gentilini (ai quali però nessuno ha mai dato tanto spazio come Salvini l’ha dato a Borghi e compagni): ma a differenza di quanto avviene con la Lega salviniana, tali smoderatezze rimanevano confinate ai verdi prati di Pontida e non avevano la pretesa di assurgere a proposte politico-istituzionali. In altre parole, Bossi sapeva benissimo che col “celodurismo” non si governa e che nelle sedi istituzionali bisogna essere seri. Bisogna pensare alle imprese; a fare dell’Italia un Paese competitivo sul piano dell’economia europea e globale; all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione/semplificazio