DI ALESSANDRO DE ANGELIS
Se le parole hanno un senso e, dunque, se quello che è accaduto rivela "approssimazione, sciatteria e inadeguatezza" da parte del ministro Lamorgese, se il ministro non ha capito" ed "è grave" o se invece "ha capito e tollerato" ed "è ancora più grave", se "si è permesso a quel cretino che non può andare neanche allo stadio" (guai a pronunciare la parola fascista, ndr) "di stare a piazza del Popolo", se è inadeguato anche l'intervento in Aula del ministro, "scritto da solerti funzionari" ma senza un minimo di assunzione di "responsabilità politiche", se c'è un clima di doppia morale per cui "se ci fossi stato al Viminale" la sinistra si sarebbe indignata (e onestamente questo è vero, ndr), se, gran finale, neanche in Cile a urne aperte "si usano gli idranti contro la folla urne aperte", se tutto questo è vero, la logica conseguenza del ragionamento porterebbe alla richiesta di dimissioni o quantomeno a un atto politico conseguente. Il Cile è Cile, se è tale, è parola che implica delle conseguenze immediate da trarne, a meno che il titolare dell'invettiva non ne subisca il sinistro fascino, sentendosi a casa, ma questo smentirebbe la critica. E invece Matteo Salvini conclude il suo intervento con un polemico, ma altrettanto innocuo: "Buon lavoro, signor ministro, se fa il ministro perché per ora non ce ne siamo ancora accorti".
E se le parole e i gesti hanno senso, analogo iato è registrabile nella "fuga" di Giorgia Meloni. Solo una settimana fa, approfittando del question time proprio con il ministro Lamorgese, si presentò, fatto insolito per un leader in un appuntamento parlamentare del genere, per pronunciare le parole più gravi verso il titolare della sicurezza nazionale sulla "strategia della tensione": pezzi dello Stato che, con la complicità di apparati più o meno deviati, tollerano e organizzano disordini per creare un clima, anche di criminalizzazione del dissenso, per ingenerare un riflesso sull'ordine costituito. Parole dopo le quali ti aspetti, qualora rispondessero a convinzioni e non alla propaganda più piega, prove, se non di fronte alla magistratura, almeno di fronte al paese e al Parlamento, magari nella seduta successiva, alla quale la leader di Fdi aveva dato appuntamento al ministro con tono di sfida.
Alla seduta successiva, cioè a quella odierna, invece la leder di Fdi lascia la parola a Francesco Lollobrigida che, al pari di Salvini al Senato, si indigna molto, ma dopo reiterati inviti a provare vergogna per quel che è successo lì si ferma. Eppure, basta andare sul sito del suo partito per firmare una bella petizione online per chiedere le dimissioni della Lamorgese. Al cronista spetta registrare che, vuoi perché presentarle sarebbe la mossa da fine del mondo non verso il governo ma verso Salvini, di quelle che poi per davvero non ti parli più - perché come fai a votare la sfiducia e rimanere al governo, ma anche come fai a non perdere voti essendo costretto a difenderla – vuoi per altri motivi, la Meloni, al pari di Salvini, si esercita nella nobile arte del vorrei ma non posso.
È il paradigma di giornata, per tutti, per una ragione o per l'altra, dentro il quale c'è anche, l'intervento del ministro dell'Interno. Se ci fossero dei canoni oggettivi è evidente che la situazione non reggerebbe, e che il discorso di oggi non sarebbe sufficiente ad assolverla da ciò che non ha funzionato il giorno di Roma o il giorno di Trieste dove – si apprende da un resoconto documentato di Repubblica – è stato proprio il ministro a presiedere il comitato dell'ordine e della sicurezza. Tutta la ricostruzione sul terribile pomeriggio romano di cui è chiara la sottovalutazione onestamente ammessa, non chiarisce tuttavia cosa non ha funzionato, e dove siano stati gli errori nella catena di comando, al punto che anche il capogruppo di Leu Federico Fornaro, un convinto sostenitore del governo abituato a misurare le parole, chiede di "verificare l'adeguatezza al ruolo dei responsabili della sicurezza nella capitale".
Ma è una verifica, in parte accennata ma non svolta perché, consapevolmente o inconsapevolmente, la Lamorgese sa di non poterla sviluppare essendo impensabile una discussione vera adesso, nel pieno della fase che si è aperta con l'assalto alla Cgil e che si chiuderà con un appuntamento sensibile come il prossimo G20. Un passaggio cruciale, senza voler scomodare Genova o il G7 di Amburgo in cui l'unica cosa che non si può fare è sviluppare un dibattito che ingenera elementi di pressione e tensione verso chi ha il compito di tutelare l'ordine pubblico. Né è pensabile che quella catena di comando possa essere cambiata in dieci giorni. Solitamente, non porta bene trascinare il tema dell'ordine pubblico dentro un meccanismo di propaganda e di chiacchiericcio politico, di fronte a piazze complesse e in fasi delicate. Il che non significa che non si possa attaccare, criticare, essere severi e conseguenti nei giudizi e negli atti. Giocare, un po' meno.