di Alessandro De Angelis
La "villa" come "illusione ottica" di un'alleanza che ritrova un centro di gravità, luogo degli incontri periodici come fu Arcore sin dai tempi del lunedì con Bossi, quando i cronisti aspettavano uno spiffero per conoscere i destini della nazione e magari, lì dentro, si scambiavano solo amenità dopo un risotto. E come gli incontri a palazzo Grazioli, il centro del variopinto romanzo berlusconiano dei tempi e degli eccessi che furono. È così forte l'immaginario di ciò che è stato, che il riflesso pavloviano nel vedere baci e abbracci a favor di camera all'uscita di Villa Grande, e pure la macchina di Salvini che per poco non mette sotto la famiglia Dudù induce all'abbaglio.
Per carità, l'elemento atemporale rispetto al tempo e agli acciacchi è comunque in questa ritualità, che sopravvive alle generazioni che si succedono e ai rapporti di forza che mutano. C'è poco da fare: pur non essendo più Berlusconi il padrone della coalizione, senza il suo ruolo di padrone di casa dopo mesi di assenza, da quelle parti è complicato pure far parlare i due fumantini rampolli del sovranismo, protagonisti di una delle più bislacche campagne elettorali che si siano viste da più lustri a questa parte, preoccupato l'uno dei successi dell'altra più che della sinistra.
Finisce qui, il colpo d'occhio evocativo, fotografato in un comunicato stampa dell'unità ritrovata (finta) e del "clima cordiale" (si dice sempre quando è stato esattamente l'opposto), dove si istituzionalizza, come una volta, il rito dell'incontro settimanale per orchestrare "azioni parlamentari condivise", che pare una novità ma in fondo è ciò che si decise prima dell'estate quando addirittura si discettava di "intergruppi", federazione e "partito unico del centrodestra", ma che non è stato mai realizzato. Anzi, si è frantumato nella recita a soggetto delle "tre destre" o se preferite nel centrodestra "uno e trino" su vaccini e Green Pass, mica poco, perché di questi tempi se non trovi una posizione comune sulla pandemia non si capisce su che la devi trovare.
Si sarebbe detto in altri tempi: analisi del voto, critica e autocritica, fosse pure per dare la colpa a Veronica, alla partenza di Kakà dal Milan, o magari ai giudici o ai burattini della Merkel. Manco quello perché, c'è poco da fare, pure i capri espiatori è difficile trovarli, senza robuste dosi di umiltà e onestà intellettuale, in una commedia del "sì", "no", "forse", in relazione al governo, e che governo, rispetto al quale nessuno dei tre è disposto a cambiare atteggiamento, tanto vale cambiare discorso e far finta che va tutto bene. E chissà se, tanto per dirne una, era un fuoriprogramma rispetto all'"azione comune" il tweet con cui Giorgia Meloni rilancia, pressoché a pranzo in corso, la petizione popolare per una mozione di sfiducia contro la Lamorgese, roba da mettere il pranzo di traverso, per motivi diversi, agli due commensali.
Vabbè, c'è il Quirinale dove i nostri giurano e stragiurano, al punto di metterlo nero su bianco, che marceranno uniti come una falange, dopo che si sono già dilettati attorno al nome di Mario Draghi con diversi retropensieri, chi perché sogna De Gaulle, chi perché sogna le elezioni anticipate, chi per bruciarlo, chi per seguire le mode. E in questa promessa, non ci vuole Cassandra, c'è una carezza al non proprio timido ego del Cavaliere che, come noto, sogna sé beato tra i corazzieri, altro che De Gaulle, mentre alla Camera va in scena non proprio una prova di compattezza attorno alla nomina del nuovo capogruppo che per poco non si sfascia tutto.
Magari c'è da prendere il tutto sul serio, perché, in fondo, il vecchio Silvio è l'uomo del bipolarismo, o di qua o di là, dell'unione di tutto ciò che è alternativo alla sinistra e nella sua concezione la sua presenza vale come assicurazione di "moderatismo" più dei numeri che gli attribuiscono un ruolo da gregario. E dunque "no al proporzionale", che rinnega la sua storia, altro giuramento solenne. Magari c'è da registrare solo un gioco degli inganni e degli specchi, in cui ci si promette amore eterno con la pistola in tasca: loro si impegnano sul Quirinale, sapendo che non passerà mai, lui contraccambia con la "federazione", già franata nella competizione a destra, Salvini esce con la riserva mentale di chi continuerà a stare un po' dentro un po' fuori, l'altra solo fuori, il padrone di casa che, quando escono, si conferma nei suoi non lusinghieri giudizi sui commensali. È lecito chiedersi se tutto questo reggerà allo stress test dell'elezione del capo dello Stato o se questa è la coda di un film e in quell'occasione ne parte un altro, senza effetti ottici.