Quasi 5mila alberghi oggi sono in vendita in tutta Italia. Per la precisione 4571. Il grido di allarme è partito dalla Riviera Romagnola, dove il cartello “vendesi” è stato affisso negli ultimi mesi su oltre 350 strutture. Ma non solo lì il settore alberghiero oggi è in crisi. “È ragionevole pensare che questo discorso possa essere generalizzato - afferma Patrizia Rinaldis, presidentessa di Federalberghi Rimini -. Il turismo è sempre stata una fonte di reddito molto importante in tutto il territorio, e io ho visto hotel in vendita anche in molte altre regioni”. Secondo Rinaldis tutte le zone in cui il turismo ”è nato ed è attivo, almeno prima della pandemia, potrebbero esserci situazioni di questo tipo”.
“Ho la certezza che molte delle nostre aziende necessitino di essere riqualificate, perché non sono più competitive sul mercato - afferma -. Basta guardare gli annunci online”. E infatti, facendo una rapida ricerca sul web sui siti di vendita di immobili, scopriamo che sono migliaia gli alberghi in vendita in tutta la penisola: 126 solo nella Capitale, 167 a Milano, 385 a Verona, 114 a Firenze, 287 a Venezia, 177 a Torino, 62 a Napoli. E ancora 40 a Bologna, 32 a Pisa, 30 a Genova. Strutture di ogni tipo, dalle più piccole, con poche camere e pochi metri quadrati di spazio, alle più grandi, fino a 16mila metri quadrati e oltre 200 camere, complete di area fitness, centri congressi, lounge bar. Il numero totale delle strutture in vendita sfiorerebbe le 5mila unità, per la precisione 4571, solo sul sito che si trova in prima posizione su Google.
Come riporta Istat, il totale degli alberghi in Italia (il dato più recente è del 2019) ammonta a quasi 33mila strutture. Questo significa che circa il 16 per cento del totale delle strutture, in Italia, è in vendita. Effetto Covid? Sicuramente sì, ma non solo. C’è un altro attore protagonista. “È verosimile credere che Airbnb abbia contribuito a questa moria di alberghi”, dice il giornalista e scrittore Riccardo Staglianò, autore del libro “L’affittacamere del mondo. Airbnb è la nostra salvezza o la rovina delle città?” (Giulio Einaudi Editore, 2020). I motivi sarebbero tanti. “Innanzitutto perché ha un vantaggio decisivo rispetto agli alberghi: non ha costi fissi - spiega -. Mentre gli alberghi devono pagare le pulizie, la tari che è aumentata, il canone tv, Airbnb non ha questi problemi, perché è formato da privati che aderiscono a un sistema di tassazione molto vantaggioso, ovvero la cedolare secca”.
Inoltre, la piattaforma è stata in grado di ritararsi e di adattarsi al cambiamento durante la pandemia. “Un esempio? Quando le restrizioni sono state un minimo allentate, l’anno scorso, ha cambiato algoritmo di presentazione delle destinazioni che offriva sul suo portale, massimizzando le destinazioni più vicine, il turismo di prossimità. Ha capito che era giusto dire alle persone: “Non vuoi prendere un aereo? Ti propongo destinazioni vicine a te, dove puoi arrivare in macchina, in totale sicurezza”. Senza contare che in tempi di Covid, per i turisti, avere una casa tutta per loro era un vantaggio enorme, perché tutti preferivano avere uno spazio isolato piuttosto che condividere gli spazi di un hotel con altre persone. “È stata fatta un’”igiene” del mondo, passatemi il termine. Come in guerra. Quelli che dovevano perire sono periti. E poi è normale che un cliente preferisca soggiornare in strutture innovative e all’avanguardia piuttosto che in alberghi vecchi e fatiscenti”.
Staglianò spiega che prima di quotarsi in borsa, un anno fa, in piena pandemia e nel momento di massima crisi del turismo, Airbnb era valutata sui 35 miliardi di dollari. Quando poi si è quotata, la borsa le ha riconosciuto un valore di 100 miliardi di dollari. “Questo dice tutto. Mentre gli alberghi andavano a rotoli Airbnb ha triplicato il suo valore”. Non a caso il servizio ha riscosso un successo enorme negli ultimi anni. Ma Airbnb non è l’unico motivo della crisi che sta attraversando il settore alberghiero, perché oggi le strutture si trovano di fronte anche a molte altre difficoltà. “La maggior parte degli hotel in vendita sono a conduzione familiare - spiega Rinaldis -. Con la pandemia la gente si è indebitata e non riesce a far fronte alle spese necessarie per far tornare le strutture competitive sul mercato. Non sono in grado, per esempio, di adeguare gli hotel alle nuove norme di sicurezza anticovid, o di dotarsi degli strumenti tecnologici necessari. A parte bloccare i mutui, non ci sono stati grandi aiuti durante la pandemia”.
E i piccoli e medi albergatori non ce la fanno a sostenere queste spese. “Gli alberghi italiani devono essere riqualificati. Non stiamo meramente “vendendo” gli alberghi, ma vogliamo riqualificare il territorio e investire. Dobbiamo capire che se vogliamo essere competitivi, dobbiamo mettere mano a queste strutture, che per anni hanno mantenuto standard qualitativi degli anni Sessanta. È tempo di ristrutturarli”. Non dimentichiamo poi la difficoltà di reperire il personale, che soprattutto durante la scorsa estate è stato “un problema molto grosso”, e il cambio generazionale dei gestori che non c’è mai stato. La pandemia, dunque, avrebbe solamente “accelerato una situazione latente”, che già da anni attanagliava il settore. Probabilmente ci troviamo di fronte a una crisi molto più ampia di quello che sembra, causata da molteplici fattori, tutti diversi ma allarmanti allo stesso modo. “Se sei un catamarano, puoi sterzare alla svelta quando serve. Se sei un transatlantico, come i grandi alberghi, dove ci sono tante buste paga da garantire, diventa molto più difficile”, conclude Staglianò.