Dopo l’aumento dei prezzi dei combustibili fossili, dei minerali e della logistica, dopo la carestia di microchip, ecco che si profila l’ultimo tassello di una crisi che ha sicuramente a che fare con la pandemia, ma che è figlia, forse in parti uguali, anche del cambiamento climatico: il grano ha raggiunto sul mercato di Parigi il prezzo massimo storico, su quello di Chicago il massimo dal 2012. Il grano tenero, che un anno fa costava 213 dollari USA alla tonnellata, attualmente ne vale 283; il grano duro, che si usa per la pasta, ha toccato i 550 euro sulle borse europee. In Italia l’aumento del costo grano duro in un mese è stato dell’80%, del 135% se parametrato ai valori medi degli ultimi cinque anni. Nel caso del grano duro, l’impennata è stata provocata non soltanto dall’aumento dei prezzi di combustibili, fertilizzanti, trasporti e logistica, come nel caso del grano tenero, ma anche dalla disastrosa estate del primo produttore mondiale, il Canada, dove le temperature elevate (con punte di 40 °C) hanno compromesso seriamente il raccolto autunnale. Secondo le stime di Ottawa, quest’anno l’export canadese calerà del 45%, mentre si registrano cali consistenti nelle produzioni italiana e statunitense, mai così basse dal 1961: gli USA hanno prodotto appena un milione di tonnellate a fronte dei quasi due milioni dello scorso anno. A questo panorama si aggiungono le politiche neo-protezionistiche applicate dalla Russia, primo produttore mondiale di grano tenero, che dopo un raccolto scarso per via del clima sta applicando maggiori tasse all’export. Ci sono quindi, mescolati tra loro, tutti quei fattori che già in passato sovrapponendosi l’un l’altro hanno provocato sommovimenti geopolitici: cambiamento climatico e calo produttivo, aumento del costo dei combustibili e della logistica, politiche protezionistiche. Come al solito il tappo dovrebbe saltare in Nordafrica, macroregione che è importatrice netta di grano duro per la produzione di cous-cous, e dove ciclicamente si verificano rivolte del pane: secondo una lettura diffusa per quanto opinabile, sarebbero state il detonatore anche delle cosiddette primavere arabe. L’Egitto, primo importatore mondiale di grano, sta già rivedendo le sue politiche di sovvenzione del prezzo del pane in preparazione dell’inevitabile aumento. Per molti Paesi più poveri il rischio è che l’aumento dei prezzi delle farine di grano provochi vere e proprie carestie. Ed è questo uno degli aspetti meno considerati anche da parte degli ambientalisti che in questi giorni si sono dati appuntamento a Glasgow: la sicurezza alimentare è sempre di più in bilico. Da una parte il grande agrobusiness è uno dei settori che più incidono negativamente sul cambiamento climatico: l’intera filiera della produzione e trasformazione del cibo pesa per il 25% sulle emissioni di gas serra. Dall’altra, non esiste agricoltura domestica o periurbana che possa produrre, allo stato attuale, la quantità di grano necessaria per sfamare i Paesi che non ne producono. Il punto è che a livello mondiale i grandi esportatori sono solo sei o sette, e si tratta di Paesi sempre più esposti al cambiamento climatico. Sta qui la grande contraddizione della moderna agricoltura: impatta negativamente sul problema del cambiamento climatico ma positivamente su quello della fame nel mondo. Il nodo ancora non è sciolto perché, volendo mantenere i volumi attuali di produzione, la riconversione del settore risulta difficile se non impossibile. Nel frattempo, prepariamoci all’aumento della pasta e della pizza, ma anche alle rivolte che inevitabilmente scoppieranno laddove con il grano si sopravvive, e non se ne può fare a meno.