di Marco Ferrari
Un grande artista e la prima donna pittrice. Ecco “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento”, la mostra curata di Maria Cristina Terzaghi, ospitata a Palazzo Barberini di Roma sino al 27 marzo. Un percorso articolato che vede come punto di partenza l’opera Giuditta che decapita Oloferne di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio (1571-1610), di cui ricorrono i settant’anni dalla sua riscoperta e cinquanta dall’acquisizione da parte dello Stato italiano. L’esposizione riunisce 31 opere – quasi tutte di grande formato – provenienti da importanti istituzioni nazionali ed internazionali, come Galleria Corsini e Galleria Palatina di Firenze, Museo del Prado e Museo Thyssen di Madrid, Galleria Borghese di Roma e Museo di Capodimonte di Napoli.
Alle pareti i capolavori di Orazio e Artemisia Gentileschi, padre e figlia, Trophime Bigot, Valentin de Boulogne, Bartolomeo Mendozzi, Giuseppe Vermiglio Johan Liss, Pietro Novelli, Mattia Preti, Giuseppe Vermiglio e altri, testimoni di una svolta artistica tra Cinquecento e Seicento quando, dalla rappresentazione del tema biblico, si avviò una ricerca pittorica differente, inedita, nuova. La visione violenta e sensuale del mito biblico di Giuditta creata dal Caravaggio, entrato per la sua forza dirompente nell'immaginario collettivo, viene qui confrontata con l’interpretazione tutta femminile di quello stesso tema, offerta da un'artista tenace, coraggiosa e appassionata come Artemisia Gentileschi (1593-1656).
Si gioca tutto sulla potenza drammatica l'incontro tra i due celebri artisti a Palazzo Barberini di Roma dove il quadro della donna è giunto dal Museo di Capodimonte a Napoli. Un confronto importante con la grande tela caravaggesca del 1599, tra i capolavori dell’incipiente XVII secolo. Giuditta e Oloferne ci riporta al racconto sulla intrepida vedova della città di Betulia che salvò il popolo ebraico dalla tirannia degli Assiri decapitando il loro sanguinario comandante. Un tema che ruota attorno alla vicenda della ebrea, considerata esempio di coraggio e virtù, tema richiesto spesso dai committenti dell’epoca, anche nelle corti europee. La mostra ricalca il modo di pensare della società di quel periodo, dal rinascimento al barocco, poiché Caravaggio dà vita a una scena rivoluzionaria, fatta di violenza ma anche di consapevolezza mai viste. Infatti, come testimoniano le tele della prima sala, il manierismo si avvicina con cautela all’effetto della decapitazione. Accade nel grande dipinto orizzontale di Tintoretto: una tenda accoglie il corpo esanime di Oloferne e la giustiziera copre con un drappo lo scempio, mentre la testa mozza è relegata nell’angolo basso a sinistra del quadro. Caravaggio invece esalta la spada che affonda nel collo e il volto dell’eroina, consapevole che sia la mano divina a guidare il senso della giustizia.
In contrasto c’è la faccia contratta e rugosa della serva Abra. Ne scaturisce una contrapposizione generazionale teorizzato da Leonardo da Vinci, avvezzo a seguire dal vivo le decapitazioni per formarsi un’idea esatta degli effetti da esaltare poi nella pittura. Non a caso nell’anno in cui Caravaggio realizzò il dipinto, a Roma andò in scena la drammatica decapitazione di Beatrice Cenci, atto che sicuramente ha influenzato il pennello dell’artista milanese. Anche Artemisia Gentileschi aveva una certa dimestichezza con Giuditta, alla quale ha dedicato più di una tela, seguendo un soggetto caro al padre Orazio. La sua Giuditta è ospitata ora nella terza sezione della mostra. L’opera, dipinta a Roma nel 1612, testimonia il fatto che non basta la forza di una sola donna per vincere quella di un uomo. Un aspetto che rimanda alle vicende personali della pittrice, vittima di un efferato stupro perpetrato da Agostino Tassi nel 1611. Questo fu indubbiamente un evento che lasciò un'impronta profonda nella vita e nell'arte della Gentileschi, la quale, animata da vergognosi rimorsi e da una profonda quanto ossessiva inquietudine creativa, arrivò a trasporre sulla tela le conseguenze psicologiche della violenza subita.
La donna, infatti, venne violentata nella casa paterna dal pittore Tassi, il quale promise di sposarla, ma non mantenne la parola e fu portato in giudizio. Il rancore di Artemisia non si indirizzò tanto contro l’uomo, quanto contro l’amica e inquilina Tuzia, rea di non averla aiutata nella torbida vicenda. L’altra Giuditta di Artemisia, datata 1615, viene dagli Uffizi, ed è simile nella impostazione alle attigue tele di Orazio Gentileschi. In entrambi la decapitazione è avvenuta, le due donne, mute e sole, sono in fuga, la testa del comandante in una cesta. È un’Artemisia meno tragica, introspettiva piuttosto, a riflettere sul proprio passato a Firenze, dopo essersi maritata. Nell’ultima parte della esposizione si osservano figure bibliche accostate a Giuditta. Sono David, che con l’astuzia mozza il capo a Golia (opere di Cristofano Allori e di Valentine de Boulogne, prestato dal Thyssen di Madrid) e Salomè, lasciva assassina del Giovanni Battista.