di Franco Manzitti
Nel rigido inverno australe del 1972, da imberbe cronista, ero sulla Avenida Alameda O’Higgins, che tagliava in due Santiago del Cile, esattamente un anno prima del golpe di Pinochet, in un altro fatidico 11 settembre.
Era la Avenida che divideva come un confine la splendida capitale cilena, ai piedi delle Ande bianche di neve: il barrio alto da una parte, dove abitava la borghesia facoltosa e allora terrorizzata dalle riforme socialiste e dalle nazionalizzazioni del presidente Salvador Allende e dall’altra il barrio bajo, dove abitavano le classi popolari, fino alle “villas miserias” della periferia con le case costruite di fango e dove si cantava “El pueblo unido jamas sera vencido”, “Il popolo unito non sarà mai sconfitto”, la canzone degli Inti Illimani, che sarebbe diventata l’inno straziante davanti alla repressione militare in agguato.
Ricordo su quella Avenida un battaglione dell’esercito che sfilava con il passo dell’oca, strisciando gli stivali sull’ asfalto, prima di batterli sul terreno, secondo le regole dell’esercito nazista, importate dall’altra parte del mondo da qualche generale che era andato a scuola di guerra in Germania.
Erano i soldati allora comandati dal generale Alberto Pratts, militare fedele ad Allende, che stava per cedere il suo posto a Augusto Pinochet, allora insospettabile ufficiale di un esercito che nella storia cilena era stato sempre ultragovernativo.
Li guardavo quei soldati e pensavo alle voci di golpe che già correvano per il mondo e sopratutto in Italia, che osservava il Cile socialista con una attenzione particolare.
“Spaghetti in salsa cilena”_ era lo slogan di una campagna di imitazione che immaginava l’esperimento di governo di Unitad Popular, trasferito da quel fantastico paese al di là delle Ande all’Italia del compromesso storico, che affascinava Enrico Berlinguer e Aldo Moro, il leader comunista e il “cavallo di razza” democristiano , vicino, vicinissimi a un progetto politico “rivoluzionario”.
Sarebbero stati capaci quei soldati nella divisa grigia con gli elmi simili alla Werchmart, ma con la loro storia di fedeltà alle istituzioni, di rovesciare il “compagnero” Salvador, il medico che al terzo tentativo era riuscito a diventare presidente della Repubblica, mettendo al governo i comunisti e i socialisti per la prima volta nella storia non solo del Cile ma della intera America Latina?
Sembrava impossibile, ma un anno dopo sarebbe successo con il massimo della violenza immaginabile, fino a tingere di rosso le acque del Rio Mapocho, il fiume che scorre in mezzo a Santiago. Un golpe incominciato a Valparaiso, dove si era sollevata la Marina e culminato a Santiago con l’aviazione che bombardava il palazzo della Moneda e l’esercito che trasformava lo Stadio Nacional di calcio nella prigione più terrificante.
A quella scena indimenticabile ho ripensato in questi giorni, quando le notizie del Cile sono di nuovo “rivoluzionarie” e completamente capovolte rispetto a quei tempi “storici”.
La vittoria di Gabriel Boric, l’ex leader studentesco, diventato a sorpresa presidente, sconfiggendo con il 55 per cento il candidato di estrema destra e di nostalgia nazista Antonio Josè Kast, un padre nazista, un fratello ministro di Pinochet, convinzioni da ultras cattolico e straliberista, pronto a restaurare gli ideali del regime militare, fa cambiare scena a un paese che stava scivolando indietro proprio sulla china che ci divide da quel lontano ricordo.
Il Cile ci aveva messo questo tempo a uscire dall’era di quel generale ex fedelissimo, diventato un dittatore repressivo in politica interna e in politica economica, un ultraliberista, dietro l’ispirazione dei famosi Chicago boys, la scuola americana che aveva trovato a Santiago il paradiso per le sue applicazioni più che liberiste.
Insomma dalla nazionalizzazione delle miniere di rame di Allende ai principii del mercato ultra libero e all’invasione delle multinazionali, tornate oltre la Cordigliera delle Ande.
L’uscita dalla dittatura militare è stata lunga e complessa, ondeggiante tra riforme e dietro front, mentre a la Moneda, quel grande palazzo grigio nel centro di Santiago, sede del governo, si sono alternate figure molte diverse e ispirazioni politiche quasi contrapposte, anche se mai come nella tragedia del golpe 1973. Dalla riformatrice e socialista progressista Michelle Bachelet, presidente due volte, a Sebastian Pinhera, una specie di Berlusconi cileno. Con questi sconquassi la società cilena e soprattutto la sua economia, con la cura da cavallo dei Chicago Boys, ha preso strade diverse, ma con esiti alla fine positivi di un miglioramento deciso rispetto alle macerie del dopo Allende.
Allora si scontravano le due visioni contrapposte del partito comunista e del partito socialista, entrambi assi portanti del governo di Unitad Popular. Per i comunisti la strada era “consolidar para avancar”, una politica più conservatrice, mentre per il partito di Allende, ma non tanto personalmente per lui, la strada era “avancar para consolidar”, riforme spinte, totali.
Su quella strada spingeva l’ala radicale del Mir, il Movimiento de Izquerda Rivolucionaria, che aveva tanti adepti in Italia, tra le file della sinistra extraparlamentare, che sarebbe diventata l’area di Autonomia operaia verso la fine degli anni Settanta, quando i tanke di Pinochet avevano già soffocato la svolta cilena e gli spaghetti in quella salsa erano andati di traverso anche agli italiani innamorati del modello sudamericano.
Questo passato prossimo, non tanto remoto, che avevo avuto la fortuna di osservare da vicino in quel rigido inverno australe pre golpe, ha poi terremotato a lungo la società civile cilena, squassata dai colpi e dai contraccolpi.
Cosi, oltre ai cambi di governo, ci sono state spesso, nel corso dei decenni, svolte anche dure. Le rivoluzioni studentesche con i nuovi leaders-ragazzi che emergevano in testa a grandi movimenti di piazza, spesso sollecitati anche da rivendicazioni “piccole” per una giustizia sociale che partiva anche dai prezzi dei biglietti del trasporto pubblico o dalle diseguaglianze nei corsi di studio.
Fino a rivolte più dure di lavoratori e dipendenti pubblici.
Boric, che arriva da Punta Arenas, Sud del Sud cileno, le province più meridionali del mondo, sotto Puerto Montt, la base di partenza per i viaggi verso il Polo Sud, tra ghiacci eterni e arcipelaghi misteriosi, era il successore di Camilla Vallejo, la giovanissima leader studentesca che per prima aveva incominciato a contestare, a fine anni Novanta, il lento scivolamento indietro della politica cilena.
Ora grazie a lui, al suo programma e alla sua strategia sottile, il Cile probabilmente svolterà per sempre dalle politiche economiche della proprietà privata sacra e inviolabile e dal liberismo scatenato. Il suo Frente Amplio ha altre idee e, dopo avere messo insieme al partito comunista anche la Democrazia Cristiana prepara un piano di governo che fa uscire il paese da un aut aut lungo una cinquantina di anni, con programmi sociali più equilibrati.
Potrebbe essere uno squillo per l’intero continente sudamericano. Nel 2022 si vota in Colombia e poi in Brasile, dove sono in piedi gli ultimi due governi di destra.
Soprattutto quello di Bolsonaro, il fantasmagorico imitatore di Trump, che sarà sfidato dal ritorno di Lula, il presidente-sindacalista, sconfitto ed anche arrestato, tra scandali e super inchieste giudiziarie, oggi riabilitato politicamente e non solo.
Gabriel Boric si insedierà in marzo e sicuramente la cerimonia di investitura di questo trentacinquenne non vedrà le sfilate militari del tempo che fu. Nessuno mai più in Cile batterà sulla Alameda O’ Higgins il passo dell’oca, facendo tintinnare gli speroni tra le Ande e l’Oceano Pacifico.