di Niccoló Rinaldi

 

Ormai pare che le rivolte anziché eventi di cambiamento, un ponte verso un “altrove”, siano un ballo in maschera dell’”aldiquà”, riconducano al potere, celebrino con dei trucchi da prestigiatore chi si voleva disarcionare dal trono. In questi anni si parla tanto di diritti umani e democrazia, ma dal Venezuela alla Bielorussia, dalla Guinea alla Cambogia, ogni anelito di piazza che aspiri alla democrazia sembra destinato a fallire, in un modo o nell’altro.

L’assicurazione per una rivoluzione di successo non è data tanto dalla rabbia del popolo, dalla sua volontà a sacrificarsi, ma solo dalla combinazione di alcuni fattori: un disagio sociale diffuso, perché, come si canta ne L’opera da tre soldi, “viene prima la pancia e poi la morale”; un condottiero riconosciuto, che sappia destreggiarsi nelle mille insidie di un attacco frontale e non violento a un potere costituito; un appoggio esterno; e la defezione pro-insorti di qualche reparto militare o affine. Per alimentare il sistema nervoso di una rivoluzione, occorrono tutti questi elementi, e non solo alcuni di essi – e così leader acclamati ma privi di appoggi militari restano agli arresti, come Navalny o San Suu Kiy, gli studenti di Karthoum privi di un vero capo gridano invano nell’indifferenza del mondo, e anche a Hong Kong finiscono col sembrare troppo borghesi. È un mosaico esigente, quello di una rivoluzione di successo, e ultimamente manca sempre qualche pezzo.

Ma il Kazakhstan, con la classica imprevedibilità dell’Asia Centrale, ha aggiunto un capitolo in più alla recente storia delle rivoluzioni fallite, e una lezione oscura per i democratici kazaki od occidentali. L’avvio della rivolta è stato da copione: l’aumento esoso del prezzo del gas ha scatenato i cittadini a lungo esasperati da un’ingiustizia sociale e una disparità di ricchezza che raggiunge disparità assurde. Il malcontento si è esteso, come volando per migliaia di chilometri sulla steppa disabitata, dall’ovest del paese al suo centro nevralgico, Almaty. In un paese che ha conosciuto in anni recenti imponenti ma pacifiche manifestazioni di massa, organizzate da una rete di forze di opposizione bandite ma non violente, queste proteste hanno costituito una rottura: assalti ai palazzi del potere, conquista di aeroporti, incendi, spari, scontri a fuoco. Ecco che il copione comincia a ingarbugliarsi: secondo le autorità una ventina di agenti di sicurezza sono stati uccisi, tre addirittura decapitati, 750 feriti, quasi trenta “terroristi armati” sono stati eleminati, altri feriti. Migliaia gli arresti, tra dimostranti pacifici e “agenti provocatori”.

La rivolta era cominciata pacificamente, poi però sono intervenuti uomini armati e il quadro si fa torbido: miliziani reclutati da Iraq o Afghanistan, mercenari, schegge? Oppure, anche questo è possibile, fantomatici guerriglieri creati dal potere per giustificare una repressione più robusta? O altrimenti, come pare accreditare l’arresto per tradimento del capo dei servizi di sicurezza, Karim Masimov, servizi kazaki deviati per fare le scarpe a un Tokayev che si stava allargando troppo?

È stata annunciata una commissione d’inchiesta, ma in molti, scettici, ne reclamano una internazionale e indipendente. E così sembra di tornare al massacro di Andijan, città uzbeka nella quale nel 2005 fu perpetrata una carneficina di civili su cui – tra massacro da parte dei militari e improbabili terroristi – le narrazioni sono restate opposte e la luce non è mai stata fatta.

Quel che più conta per il futuro del Kazakhstan è che il potere del presidente Tokayev è riuscito a rafforzarsi attraverso la protesta: l’abortita rivoluzione è diventato un dramma nazionale nel quale si sono consumati un inaspettatamente rapido pensionamento – e forse qualcosa di più – del fin qui onnipotente “leader supremo” Nazarbayev e della sua famiglia, un repentino cambio di governo ora ancora più fedele a Tokayev, un ripulisti nell’oligarchico cerchio magico del “chi conta” politicamente ed economicamente. Il tutto con l’appoggio determinante di Putin, il sostegno della Cina e rassicurando l’Occidente. Quanto all’opposizione, fatta di coraggiose organizzazioni per i diritti umani e di un paio di partiti democratici quanto vietati, ha comprensibilmente cavalcato una protesta che non aveva né organizzato né in buona parte nemmeno previsto, ma ne è finita ai margini: più che da loro, la protesta è stata adottata dalla conservazione – il suo esito più inglorioso, sfociando anche in alcuni dettagli significativi.

Per esempio, quale apertura a un maggiore stato di diritto, le autorità hanno assegnato degli avvocati d’ufficio alle migliaia di dimostranti pacifici arrestati. Tuttavia questi avvocati, come tutti quelli d’ufficio al soldo delle autorità, consigliano ai loro clienti di ritirare ogni querela per maltrattamenti, di dissociarsi dai “terroristi”, insomma di collaborare. In questo modo, assicurano, avranno la scarcerazione facile, e l’avvocato pagato.

Alcuni detenuti magari apprezzeranno questi avvocati gratuiti, così come gradita ai piani alti è la breve “rivoluzione” kazaka: cominciata da cittadini oppressi, è divenuta preda di gruppi armati che interpretavano un ruolo più grande degli attivisti democratici, per poi finire, tutti quanti, preda del presidente, che ha abilmente manovrato gli uni e gli altri in ciò che gli serviva per affermarsi campione del Kazakhstan.

Una meccanica ben illustrata da un tempistico documento del nuovo governo kazako, che illustra la genesi della protesta con molte fotografie, implicitamente ne legittima le ragioni inziali, salvo poi terminare con ben tre fotografie del presidente Tokayev – nemmeno una menzione per Nazarbayev – a garanzia del, titolo del documento, “Nuovo Kazakistan”.

L’arte di accaparrarsi una rivoluzione non è certo nata oggi, ma quel che è nuovo (o forse neppure tanto) è soprattutto lo spregiudicato successo dello scossone kazako – e non per chi è sceso in piazza, ma per chi stava, e resta, nel Palazzo.