di Maurizio Guaitoli
"E venne il giorno". Non del Giudizio universale ma del risveglio del Giusto, previsto da tutte le religioni monoteiste e che sta a indicare il trionfo del Bene sul Male. "Vaste programme", avrebbe detto il rimpianto generale Charles de Gaulle. Di che cosa si sta parlando, dunque? Ma del sorprendente disgelo mediorientale nei confronti dello Stato di Israele, in cui appaiono come echi lontani e indistinguibili i proclami dell'Olp e lo statuto di Hamas che postulavano, come unica condizione per la pace, la cancellazione di Israele dalla mappa geografica della terra d'Islam. Almeno, stando a un interessante reportage di "The Economist" del 22 gennaio scorso, dal titolo significativo "Welcome back-Why arab autocrats are encouraging a Jewish revival" ("Benvenuti a casa-Per quale ragione gli autocrati arabi stanno incoraggiando una rinascita ebraica"), lo slogan di sempre "morte a Israele" rischia quanto prima di diventare una questione vintage, ad appannaggio esclusivo dell'estremismo fondamentalista musulmano e della Jihad globale. Si parte da un episodio recente, quando nel 2021 in Yemen(stravolto dalla guerra civile tra i ribelli houthi sciiti contro il Governo locale appoggiato dall'Arabia Saudita e dagli Emirati) un commando misto Usa, Nazioni Unite, Qatar ed Emirati Arabi Uniti ha liberato un cittadino ebreo yemenita, portato in salvo con la sua numerosa famiglia negli Emirati che hanno riconosciuto loro il diritto d'asilo.
Ad Abu Dhabi i rifugiati ebrei hanno ricevuto un permesso indeterminato di soggiorno, con tanto di villa in comodato gratuito; un'auto di rappresentanza e un congruo assegno mensile di sussistenza. Un chiaro segnale di apertura e di invito al ritorno nei confronti della comunità d'affari ebraica, e un'incredibile novità per gli usi e costumi e per gli standard di quell'area! Del resto fin dal 2019, con l'inaugurazione dell'Anno della Tolleranza, gli Emirati hanno riconosciuto il diritto degli ebrei a soggiornare nel Paese, consentendo loro l'apertura sia di esercizi e attività commerciali, come ristoranti kosher, sia di centri di cultura ebraici. Lo scorso anno, durante il festival di Hanukkah, sono stati installati nelle pubbliche piazze, a spese dello Stato emiratino, monumentali menorah(lampade votive ebraiche a sette braccia) ed è stata pianificata per fine anno la costruzione di una sinagoga, finanziata con denaro pubblico. Dal Marocco ai Paesi del Golfo un numero crescente di Stati arabi riscopre così le radici delle sue antiche comunità ebraiche, aprendo nuovamente le porte ai loro discendenti. Ma quali sarebbero le ragioni di fondo di questo cambiamento epocale? Qui l'analisi di The Economist si fa attenta e prudente, a scanso di inutili e pericolosi entusiasmi.
Da un lato, gli eccessi del nazionalismo e dell'islamismo salafita hanno prodotto gravi guasti nelle comunità arabe che aspirano a modernizzarsi. In secondo luogo, è di tutta evidenza come il conflitto arabo-israeliano non sia più di moda nella regione, che storicamente teme molto di più il millenario nemico sciita iraniano rispetto a Israele che, come entità statuale organizzata, esiste da appena tre quarti di secolo! Quindi, agli occhi dei nuovi moderati arabi, principi, emiri e case regnanti, fa molta più sensazione un Paese piccolo come Israele che ha un'economia florida e conta solo sulle sue forze, non necessitando di risorse petrolifere per arricchirsi. Storicamente, del resto, prima del 1948 (quando si verificarono flussi migratori di massa di ebrei che desideravano reinsediarsi nel nuovo Stato ebraico), la maggior parte degli ebrei mediorientali vivevano fuori della Palestina e all'interno dei territori arabi. Tanto per esemplificare, solo nel 1947 erano ebrei almeno un quarto degli abitanti di Baghdad, come lo fu la reginetta del concorso di bellezza di quello stesso anno. Dopo il 1948 però, a seguito del primo conflitto arabo-israeliano e della conseguente fuoriuscita dei loro ex cittadini di religione ebraica, il vento cambiò in Medio Oriente e gli ebrei rimasti furono espropriati degli averi e tolti loro i diritti di cittadinanza. La propaganda anti-israeliana iniziò a permeare i testi scolastici dei bambini arabi della scuola dell'obbligo, così come i sermoni degli imam si fecero più incendiari nei confronti degli ebrei, alcune migliaia dei quali furono espulsi dai propri Paesi di origine.
Ma, come ovvio, oggi molti arabi, anche non più giovanissimi, non hanno memoria dei conflitti armati del passato: l'ultimo è dell'inizio anni Ottanta, con l'invasione israeliana del Libano. Per di più, un numero crescente di responsabili arabi moderati ha una visione concreta e realistica degli enormi vantaggi che conseguono dall'avvio di scambi commerciali con Israele, e le loro aperture si fanno sempre più significative con il trascorrere del tempo, anche per intrattenere rapporti sempre più stretti con il mondo occidentale. Ed è così che i Governi egiziano, saudita ed emiratino promuovono incontri multiculturali e, sempre più spesso, tendono a mettere un freno ai sermoni incendiari degli imam. Altro segnale concreto di disgelo: personaggi ebrei appaiono regolarmente al cinema e negli show trasmessi da tv arabe; così come vanno in onda documentari che analizzano la storia degli insediamenti ebraici nella regione; e, addirittura, si aprono dipartimenti di storia ebraica in alcune università arabe. Più di recente, nel 2020, Paesi come Bahrein, Marocco e Sudan hanno ripristinato le relazioni diplomatiche con Israele, senza dover fronteggiare grandi manifestazioni di protesta al loro interno.
Lentamente, anche il più grande Stato conservatore della regione, l'Arabia Saudita, apre alla presenza ebraica, e nei testi scolastici vengono gradualmente epurati i passaggi diffamatori nei confronti del popolo di Abramo. Tant'è vero che il rabbino ultra-ortodosso, Jacob Herzog, può recarsi regolarmente a Riad indossando il costume e il copricapo tradizionale e, persino, fare selfie e danzare con i mercanti del bazar! Naturalmente, dietro tutto ciò si avverte il profumo degli affari che il principe ereditario Bin Salman persegue con grande efficacia, favorendo il turismo e gli investimenti occidentali. In proposito, è stato inaugurato ad Al Ula un hotel di lusso di proprietà israeliana, mentre Bin Salman ha pianificato la costruzione della sua smart city da 500 miliardi di dollari collocandola in prossimità della costa, nelle vicinanze di Neom, proprio per attrarre la migliore expertise di imprese e professionisti che operano in Israele, con una vicinanza che risulterà addirittura minore di quella che divide il Libano dallo Stato ebraico. Sull'altro versante, in un'offensiva di charme nei confronti degli Usa, l'egiziano Al Sisi ha avviato opere di restauro dei cimiteri ebraici e della principale sinagoga del Paese. Così come sta facendo Bashar al-Assad per le sinagoghe siriane, invitando persino a Damasco una delegazione di ebrei siriani residenti a New York per instaurare rapporti amichevoli.
Per certi satrapi e autocrati, quindi, l'occasione è buona per riabilitare la propria immagine internazionale, fingendo che sia di ritorno l'epoca antica dei loro storici predecessori, protettori delle minoranze religiose. E poiché le aperture vanno anche dall'interno verso l'esterno, si sta avverando un movimento di fuoriuscita da Israele di minoranze come i Mizrahì, ebrei di origini mediorientali, che si sentono emarginati a causa del mainstream israeliano che privilegia la storia dell'ebraismo europeo e a migliaia hanno preferito emigrare verso il Marocco e Dubai. Elementi sufficienti, quindi, per pensare che, in generale, il vento per Israele sta davvero cambiando in Medio Oriente.