di Massimo Negrotti
Chiedete a cento persone se Vladimir Putin sia comunista e nessuno vi dirà di sì, nonostante il suo passato come colonnello del Kgb – Comitato per la Sicurezza dello Stato – dall'enorme potere nell'Unione Sovietica. Non è irragionevole pensare che persino lui stesso neghi qualsiasi fede nell'ideologia ufficiale del regime per il quale, peraltro, ha lungamente lavorato. Nei commenti dei più diversi osservatori occidentali, tuttavia, emerge la convinzione che, accanto alla questione del possibile ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea e, soprattutto, della Nato, Putin persegua una finalità geopolitica più ampia consistente nella ricostituzione di un’area controllata dalla Russia assai simile a quella che controllava l’Unione Sovietica.
L’ingresso ucraino nella Nato, in questo senso, sarebbe stato colto da Putin come il pretesto, peraltro in sé non del tutto ingiustificato e mal trattato dalla politica internazionale occidentale, per l’invasione ora in atto. Gli stessi commentatori si chiedono, inoltre, come reagisca e reagirà l’opinione pubblica russa di fronte a questa guerra e alle sanzioni occidentali, come se una opinione pubblica in Russia davvero esistesse.
E qui sta il punto. È vero che tutti i Paesi europei che hanno vissuto l’esperienza comunista ora se ne sono decisamente allontanati, conservando unicamente e inevitabilmente piccoli Partiti Comunisti di nostalgici. Ma è soprattutto vero che settant’anni di comunismo ufficiale in Russia e oltre quaranta in Paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Germania dell’Est e la Cecoslovacchia, ora divisa in due, la Romania e la Bulgaria, non sono passati invano e hanno lasciato una pesantissima eredità sociologica. Essi hanno tagliato le gambe a varie generazioni, impedendo loro di sviluppare la cultura democratica e liberale che, negli altri Paesi europei e persino in vari Paesi orientali, ha gradatamente generato e fatto assimilare idee come lo Stato di diritto, la libertà di pensiero, parola, associazione, iniziativa economica e così via.
Non a caso, i Paesi che si riconoscono nel gruppo di Visegrád – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – sono i più recalcitranti di fronte ai principi culturali e giuridici di fondo dell’Unione europea, esibendo una evidente immaturità filosofico-politica della quale, peraltro, la popolazione non si accorge nemmeno, perché non ha potuto assimilare principi e valori per noi scontati. L’unico Paese ufficialmente comunista a rientrare con fatica ma, alla fine, piuttosto agevolmente, in un clima culturale e politico pienamente occidentale anche grazie alle sue vaste tradizioni culturali, è stata la Germania Est che ha persino fornito al Paese un leader di notevole statura come Angela Merkel. In questo quadro, anche e soprattutto la Russia, passata con violenza dallo zarismo al comunismo più duro e spietato al quale è rimasta per troppo tempo incatenata, ha perso il passo della Storia e, oggi, è un Paese privo delle basi stesse del pensiero liberal-democratico.
Per troppo tempo una generazione dopo l’altra cresceva nell’ossessione leninista tesa a eliminare ogni rapporto fra borghesia e ceti operai, azzerando brutalmente le non del tutto inesistenti prospettive liberali della cultura russa. Il risultato non è stato solo il regno del terrore che Stalin avrebbe poi portato alle stelle, ma l’impoverimento collettivo e l’intralcio più marcato a qualsiasi sviluppo industriale del genere che, invece, andava sviluppandosi nei Paesi liberi. Ancora oggi la Russia è un Paese ricco di risorse ma senza alcun peso sotto il profilo del progresso tecnologico e industriale. E ciò ha impedito la formazione dei ceti imprenditoriali e operai che, in Occidente, hanno contribuito all’avanzamento delle idee e delle istituzioni liberali. In definitiva, Putin è figlio del suo passato e nel suo Paese nessuno, o quasi, per ora gli si oppone per la semplice ragione che non sta tradendo alcun principio che, in Russia, abbia solide e antiche radici.