di Juan Raso
C'è chi si sorprende che in una collettività italiana come quella dell’Uruguay abbiano partecipato alle elezioni del Comites solo tremila connazionali. A me pare normale in rapporto ad una comunità, che ha perso negli ultimi anni non solo istituzioni e valori comunitari, ma anche e soprattutto le sensibilitò necessarie per costruire italianità all’estero.
Non ho ovviamente l’autoritá morale per giudicare nessuno, meno i membri del Comites; ma neanche potrei farlo perché non conosco la maggior parte degli attuali componenti. Eppure ne ho percorso di strada nella comunitá italiana, dai tempi della Feditalia ai giornali di emigrazione degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, dalla RAI alle collaborazioni con l’Istituto Italiano di Cultura e la Dante Alighieri, dalle convenzioni universitarie italo-uruguaiane alla cofondazione di organizzazioni italiane forti, come l’Associazione degli Emigrati Campani o quella dei Marchigiani.
Cosa è successo nel trascorso degli anni? Perché siamo passati da vere e proprie “lotte” per sottrarre potere alla rappresentanze consolari e assumere ruoli attivi nella gestione della comunitá (perché questa era la vera battaglia in cui eravamo tutti impegnati per il riconoscimento dei Comites) alla situazione attuale, in cui il nostro Comitato nell’immaginario collettivo è un gruppo di signori - nella maggior parte sconosciuti - seduti ad un tavolo rettangolare in una Casa degli Italiani, non piú frequentata dai nostri connazionali e contesa patrimonialmente, come l’ereditá di una vecchia zia morta?
Ciò che è cambiata - a mio giudizio – é la sensibilitá per le cose italiane, o meglio, “le sensibilitá”. Sono venute meno una serie di considerazioni di rispetto ed attenzione verso i connazionali italiani in Uruguay, quelli che veramente avevano costruito la nostra comunitá, coloro che in qualche modo esprimevano la forza, la cultura, l’operositá dell’essere italiano in Uruguay. Oggi – per la comunitá o per le nostre autoritá – tanto vale sapere o non sapere l’italiano, aver lavorato o meno per le nostre istituzioni, essere stati protagonisti o no della nostra memoria collettiva. Come dice il poeta argentino Discepolo nel suo tango “Cambalache”, giacciono insieme - come nello scaffale del rigattiere - la Bibbia e lo scaldabagno.
Forse la comunitá italiana in Uruguay non scappa alle regole di una posmodernitá effimera, che costruisce organizzazioni presuntamente italiane con l’aiuto degli “amici” o pretende trasmettere la nostra cultura attraverso passeggiate in bicicletta. Mi dicono anche che esistono nuove istituzioni che hanno sostituito quelle antiche, ma – strano – non sono note, né si sa bene dove alloggiano, né che fanno.
Realtá effimere, proprio come quelle che ci circondano, sono frutto di scarsa sensibilità e della sciatteria del momento. La crisi della nostra comunitá é crisi delle persone e delle istituzioni. Sono tempi in cui é necessario trovare vie per una concertazione ampiamente partecipata; è necessario ricostruire, riordinare, avvicinare, ritrovare il senso di una solidarietà da tempo scomparsa. Non è nel silenzio complice, ma nell’azione propositiva dove possiamo e dobbiamo ancora sperare. Il momento richiede autoritá per evitare il congelamento dello stato di fatto e promuovere l’incontro – e non lo scontro – degli Italiani in Uruguay.
Probabilmente la nomina di un rappresentante comune a tutti noi – e dico “tutti” – al CGIE potrebbe essere il primo passo alla ricerca di un consenso piú solido. Poco favore farebbe alla comunitá italiana dell’Uruguay l’elezione di uno sconosciuto, di un “amico”, capace forse di molte cose, ma forse incapace di “pensare” e di “parlare” la nostra lingua, che come ho giá detto, è l'espressione palese della nostra identitá.
Il rischio –insegna il filosofo Zygmunt Bauman nel suo libro “La perdita di sensibilitá nella modernitá liquida” – é che “quando il dolore morale perde la salutare funzione di avvertimento, di allarme e di spinta ad aiutare il nostro simile, inizia il tempo della cecità morale”.