di Enrico Laurito
A distanza di dieci giorni dall’inizio della guerra-invasione (quasi) lampo in Ucraina, gli occhi e i cuori del mondo sono rivolti alle città più importanti della Repubblica di Volodymyr Zelens’kyj, l’uomo in maglietta verde che sfida Vladimir Putin e gira il coltello nella piaga, l’Europa-Eu-Nato. Le immagini sono catastrofiche, spingono alla commozione ma anche alla rabbia che gli umani trattengono più che possono. Le case sventrate, i palazzi del potere che crollano – metafora di uno stato agguerrito ma sempre più fragile – le università profanate, le metropolitane che sembrano catacombe per vivi. E poi tanti bambini, donne, giovani che fanno bombe in casa, che imparano i rudimenti della morte e della salvezza (i fucili e le pratiche salvavita degli infermieri). Da questa sfera umana, di vittime, di indifesi e fuggitivi, sociale degli ucraini e delle ucraine, dobbiamo però muoverci con non meno sensibilità verso altre vittime di questa battaglia moderna: i russi. Ad oggi dal Bunker del Cremlino arrivano numeri chiaramente sottostimati, in cui si parla di cinquecento militari russi morti, contro la stima che vedrebbe i soldati di Putin deceduti per almeno qualche migliaio di unità. Abbiamo anche saputo che i trattamenti tra aggressori e aggrediti, tra società civile e militari, non sono disumani.
Ci ha colpito la scena di alcune donne e bambine ucraine che proteggono un giovane soldato russo dai suoi stessi fantasmi quasi infantili: gli offrono un tè caldo, del cibo, gli fanno chiamare casa. Lui piange, come a non credere a quello che stava vivendo: sono un nemico e mi trattate da amico, sono l’invasore e mi trattate da figlio. Perché questa non è una guerra civile, nemmeno una guerra fratricida. Gli edifici crollano, i mezzi militari bruciano, si esce per fare la spesa ma si rientra a casa a mani vuote perché il suono della morte si diffonde come un morbo. Questa è una guerra “classica”: potere contro potere, uomo molto forte contro uomo forte ma non abbastanza, spazio fieramente sovietico e spazio sovietico fieramente (un po’) europeo. Tra qualche settimana sarà tutto finito e resteranno città fantasma, edifici meravigliosi ridotti in polvere, strade e luoghi pubblici non più pronti ad accogliere la vita di un popolo tenace.
E in Russia, cosa resterà? Cittadini e cittadine ancora più arretrati, governati da un potere che ha già superato il limite tollerabile da qualche decennio. E dei diritti? E delle proteste? Noi europei siamo ancora disposti a vedere manifestanti che poco a poco si spostano verso i commissariati? Siamo ancora disposti ad accogliere Putin come Messia quando viene nelle nostre città e visita i nostri governi? Siamo ancora disposti a non prendere posizione quando qualche giornalista o politico muore avvelenato? Se tutto in questi giorni e in queste settimane si stabilizzerà verso un ritorno all’instabilità di un mese fa, prima della battaglia, cosa sarà dei russi se continueranno ad avere il loro zar? Per qualcuno sembra quasi una prova di forza: abbiamo visto settimane di armamenti e carri armati invadere un Paese (sulla carta) libero, ci siamo rafforzati, due governi hanno fatto braccia di ferro e si sono stretti mani come in un raduno in birreria tra compagni del liceo. Davvero una battaglia di qualche settimana, che ha ucciso civili e distrutto città, non farà cambiare nulla?