DI MARCO FERRARI
Il maestro del Seicento italiano torna a splendere alla Galleria Borghese di Roma dove, sino al 22 maggio, è in corso la mostra “Guido Reni a Roma. Il Sacro e la Natura”. L’esposizione ruota attorno al ritrovato dipinto di Reni “Danza campestre” del 1605 circa, che da un anno è tornato a far parte dei depositi museali. Appartenente alla collezione del cardinale Scipione Borghese, citato negli antichi inventari sin dall’inizio del Seicento, venduto nell’Ottocento, prima disperso e ricomparso nel 2008 sul mercato antiquario londinese come anonimo bolognese, il quadro, dopo le opportune verifiche attributive, è stato riacquistato dalla Galleria nel 2020. Oltre a rappresentare un’importante integrazione storica del patrimonio del museo, la sua presenza nelle sale della pinacoteca, accanto agli altri dipinti della collezione, rimarca la fondamentale importanza della committenza Borghese per Guido Reni e offre l’opportunità di riflettere sul rapporto del pittore con il soggetto campestre e la pittura di paesaggio, finora ritenuti “estranei” alla sua produzione. Accanto al quadro ritrovato, a Villa Borghese sono esposte trenta opere nel tentativo di ricostruire, partendo dall’interesse del pittore bolognese per la pittura di paesaggio in rapporto ad altri autori del Seicento, i primi anni del soggiorno romano dell’artista, il suo studio appassionato dell’antico e del Rinascimento, lo stordimento rispetto alla pittura di Caravaggio, da lui conosciuto e frequentato e i rapporti con i suoi committenti. Guido Reni (Bologna, 1575 –1642), tra i principali esponenti del classicismo seicentesco, ebbe una carriera folgorante nella Roma papalina grazie alla committenza della famiglia Borghese. Reni arrivò a Roma ai primi del Seicento, probabilmente su invito del cardinale Paolo Emilio Sfondrato, conosciuto a Bologna nel 1598. L’alto prelato chiese al bolognese di realizzare una copia dell’”Estasi di Santa Cecilia” di Raffaello. Quando nel 1608 il cardinale vendette a Scipione Borghese parte della sua collezione, ecco la famosa “Danza” comparire nella bella residenza nobiliare romana dove ora è ritornata. Tra le opere in mostra, sono quattro monumentali pale d’altare – la “Crocifissione di San Pietro” (1604-5), la “Trinità” con la Madonna di Loreto e il committente cardinale Antonio Maria Gallo (1603-4 circa), il “Martirio di Santa Caterina d’Alessandria” (1606 circa); il “Martirio di Santa Cecilia” (1601); la “Strage degli Innocenti” (1611); “San Paolo rimprovera San Pietro penitente “(1609 circa); “Lot e le figlie”, “Atalanta e Ippomene” (1615-20) e oltre a opere di artisti che hanno influenzato il percorso di Reni. Tra queste “Paesaggio con la caccia al cervo” di Niccolò dell’Abate, “Festa campestre” (1584) di Agostino Carracci più alcuni quadri di Paul Bril che fanno parte della collezione della Galleria e “Paesaggio con Arianna abbandonata” e “Paesaggio con Salmace ed Ermafrodito” (1606-8), due dei sei paesaggi con storie mitologiche di Carlo Saraceni, già parte della collezione Farnese, provenienti dal Museo e Real Bosco di Capodimonte; quattro tondi di Francesco Albani e il “Paesaggio con Silvia e il satiro” (1615) del Domenichino.
Quella della “Danza campestre” è una tipica storia italiana, un piccolo tassello dell’esodo plurisecolare delle opere d’arte nate nella penisola. Attorno alla sua ricollocazione si può discutere sulla figura di Reni, noto per i suoi santi, le opere che dipinse per chiese e conventi, spesso su richiesta da cardinali e pontefici. Ma lui si fece ispirare pure dal paesaggio, da cui prende le mosse la mostra curata da Francesca Cappelletti, che dirige la Galleria Borghese dal novembre 2020. E che sottolinea la leggendaria perfezione a Reni, pari a quella di Raffaello. Non a caso uno dei suoi ammiratori, il banchiere collezionista Vincenzo Giustiniani, lo pone come capace di affrontare il “duodecimo modo” di dipingere: “a maniera, e con l’esempio avanti al naturale”. Virtù posseduta da “Caravaggio, i Carracci, Guido Reni ed altri, tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, taluno più nella maniera che nel naturale”. Una citazione da cui si comprende la frequentazione della scuola di pittura di Carracci e il confronto con l’arte di Caravaggio che caratterizzò il lavoro di Reni della Roma dei papi dal 1601 al 1614 firmando anche lavori prestigiosi come la Sala delle Dame nei palazzi Vaticani, chiamato da Paolo V. Ma Reni voleva tornare nella sua Bologna, prigioniero del vizio del gioco. In sostanza, non un artista maledetto come Caravaggio, ma un irrequieto che morirà, “colto da febbri”, nel 1642, a 67 anni.