Gente d'Italia

Per l’Italia si è aperto un fronte occulto di guerra che costerà più sangue che lacrime

 

 

CRONACHE DAL FRONTE

 

di Cristofaro Sola

Diario della terza settimana di guerra. Il prezzo dei carburanti al consumo è volato alle stelle toccando, in questi giorni, picchi di 2,3 euro al litro per la benzina e 2,4 euro per il gasolio. Le previsioni per il fine settimana non escludono un ulteriore rialzo a 2,60 euro al litro per il gasolio e 2,20 euro al litro per la benzina. A far lievitare il prezzo del carburante per autotrazione è la guerra russo-ucraina che, spingendo verso l’alto il costo della materia prima, si trascina l’aumento proporzionale delle accise e dell’Iva. L’imposta unica indifferenziata, nella quale sono state raggruppate le 19 accise ancora applicate dallo Stato sul consumo di carburante per autotrazione, pesa per il 40 per cento sul prezzo finale di vendita al litro di benzina e diesel (meno sul gpl). Se si aggiunge l’Iva al 22 per cento (calcolata su netto + accisa) il carico fiscale sale al 55 per cento circa. Numeri insostenibili per le famiglie e ancor più per le imprese. Tant’è che nella settimana appena conclusa, nel silenzio generale dei media, si è fermato l’intero comparto della pesca. La sospensione delle attività è stata motivata da causa di forza maggiore: il prezzo del carburante. Questa settimana si apre con la minaccia del settore degli autotrasporti di paralizzare il Paese. Stessa motivazione della flotta peschereccia. Le tariffe di energia elettrica e gas, stimate dall’Arera (Autorità di regolazione per energia reti e ambiente), a giovedì 10 marzo davano: tariffa luce monoraria F0 a 0,293 euro/kWh - tariffa luce bioraria F1 e F23 a 0,321 euro/kWh; 0,278 euro/kWh - tariffa gas a 91 euro-cent/smc. Gli aiuti stanziati dal Governo per alleggerire le famiglie e le imprese dell’aumento dei prezzi delle forniture energetiche sono del tutto insufficienti.

Tale è il quadro al netto della decisione, oggi possibile, che Mosca decida, a titolo ritorsivo, di interrompere totalmente le forniture di gas all’Italia. Serve ricordare che il gas russo copre il 40 per cento del fabbisogno del nostro Paese. Cosa accadrebbe se si materializzasse lo scenario peggiore? Per gli esperti di Nomisma Energia, il blocco di gas e petrolio dalla Russia ci consentirebbe un’autonomia di tre-quattro mesi, trascorsi i quali scatterebbe il razionamento. Sul fronte del grano e del mais siamo prossimi allo shock dell’import. L’Ungheria, dalla quale l’Italia compra il 30 per cento di grano tenero e il 32 per cento di mais per il proprio fabbisogno annuo, se dovesse mantenere la decisione di bloccare l’export per ragioni di sicurezza nazionale connesse alla guerra in corso ai suoi confini, per il comparto dell’agroalimentare nostrano sarebbe un colpo mortale. Alla potenziale caduta dell’offerta si aggiunga lo stop del 6 per cento di grano tenero e il 15 per cento di mais che giungono annualmente nel nostro Paese dalla Russia e dall’Ucraina. La situazione si aggrava per la decisione delle autorità russe di sospendere, come misura ritorsiva contro le sanzioni varate dall’Occidente, l’export di fertilizzanti. La Russia ne produce circa 50 milioni di tonnellate annue (il 15 per cento dell’intera produzione mondiale). Di questi prodotti i principali acquirenti sono l’Unione europea e il Brasile. La minaccia del crollo dell’offerta ha fatto rincarare i prezzi dei fertilizzanti del 170 per cento (da 250 euro/tonnellata a 670 euro/tonnellata). Con la chiusura dei porti sul Mar Nero, Russia e Ucraina, che sono i maggiori produttori di semi di girasole, ne hanno bloccato l’esportazione. Secondo i dati di Assitol, l’Associazione italiana dell’industria olearia, il consumo annuo in Italia di olio di girasole si aggira sulle 770.000 tonnellate. Ovviamente, non tutto destinato alle patatine fritte. Oltre che all’industria alimentare, questo particolare tipo di olio è impiegato nell’industria oleochimica ed energetica per la produzione del biodiesel. Assitol informa che dal 2015 “la quota di import di olio grezzo dall’Ucraina è cresciuta, passando dal 54 per cento al 63 per cento”. È dunque del tutto comprensibile la decisione degli operatori del settore di cominciare a razionare la vendita del prodotto, alla luce del fatto che 50.000 tonnellate di olio grezzo di girasole sono ferme nei porti ucraini e non le si riesce a trasferire in Italia.

Il divieto di import-export, firmato da Vladimir Putin contro i Paesi occidentali che hanno varato il pacchetto di sanzioni contro la Russia e tra questi l’Italia, riguarderà anche la vendita alle nostre imprese di alluminio, legno, argilla, caolino, materie prime utilizzate in alcune filiere della manifattura italiana. Grande preoccupazione suscita il blocco dell’export dall’Ucraina di acciaio (50,5 per cento) e di semilavorati (74,5 per cento). La siderurgia ucraina è presente in Italia con uno stabilimento a San Giorgio di Nogaro di proprietà della Metinvest Holding Llc, partecipata del gruppo ucraino Mentinvest Group, principale fornitore del Gruppo Marcegaglia. Ma la siderurgia italiana non potrà più contare su 5,5 milioni di tonnellate tra ghisa, rottame, e prodotti intermedi come bramme e billette, importate dalla Russia e che hanno generato un giro d’affari di circa 3 miliardi di euro. L’elenco dei prodotti sanzionati da Mosca non è stato messo a punto in via definitiva. Ma se, come tutto lascia intendere, il niet all’import riguarderà anche i settori della moda e dell’abbigliamento (comparto che lo scorso anno ha movimentato un volume di vendite per quasi un miliardo di euro), i prodotti chimici, farmaceutici e soprattutto i macchinari industriali e gli strumenti per l’estrazione dai giacimenti (volume delle vendite per oltre due miliardi di euro), il nostro Pil subirà un calo considerevole.

La Russia, fino al 2019, ha rappresentato il secondo Paese – parzialmente extraeuropeo – per importanza dei flussi turistici (5,8 milioni di presenze, il 3 per cento dell’incoming italiano, il 12 per cento del totale del mercato) con una spesa di circa un miliardo di euro (il 2 per cento del totale). Poi c’è stata la pandemia che ha fortemente ridimensionato le aspettative d’incremento del flusso turistico russo verso il nostro Paese, avendo ripercussioni nell’indotto. È noto che i turisti russi nella Penisola amino spendere per acquistare il made in Italy. Ne è prova il fatto che, sebbene nel periodo gennaio 2021-febbraio 2022 sia stato registrato un decremento nel volume di acquisti tax free rispetto al 2019 (ante-pandemia), lo scontrino medio è salito a 1.215 euro (+78 per cento rispetto al 2019). Nel 2021, mete preferite di shopping dai turisti russi sono state Milano (39 per cento delle vendite totali) e Roma (17 per cento degli acquisti tax free). In particolare, nel 2021 la categoria merceologica preferita dai viaggiatori russi (87 per cento) è stata il fashion & clothing. Anche i turisti ucraini hanno dato un contributo significativo al successo del made in Italy, comprando i nostri prodotti per un controvalore registrato a scontrino medio di 1.088 euro, in crescita del 45 per cento rispetto al 2019 (749 euro).

Tutto questo mancherà alla nostra economia con le prevedibili ricadute sulla tenuta delle imprese e sui livelli occupazionali. Quest’anno, e per molti anni ancora, nessuno verrà dalla Russia a fare le vacanze in Italia, mentre coloro che arriveranno dall’Ucraina saranno i profughi in fuga dal conflitto bellico. Ora, nessuno dubita che gli ucraini se la stiano passando malissimo. Ma per noi italiani si è aperto un fronte occulto di guerra che costerà più sangue che lacrime.

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