di Lucio Fero
Vittime, vittime della guerra, un popolo intero vittima della guerra. Così ce lo raccontiamo, così siamo in grado di vederlo. Così è in grado di vederli gli ucraini l’informazione con le sue telecamere e i suoi resoconti. Così siamo in grado di vederli noi cittadini di un mondo da 80 anni senza guerra. Il nostro occhio e anche la nostra anima e anche il nostro cervello vanno a cercare mamme separate dai figli da una bomba o da una fuga. O bambini feriti o uccisi. O famiglie spezzate dall’evacuazione delle città bombardate e assediate. O civili, gente che sopravvive o muore senza elettricità, riscaldamento, acqua, cibo. Cerchiamo il riflesso con quello che immaginiamo potremmo capitare a noi: la drammatica, tragica, violenta, istantanea e radicale rottura e rovina della vita normale e pacifica fino al giorno prima. Vediamo, cerchiamo le vittime ucraine temendo domani noi stessi si possa essere vittime.
E’ sincera, perfino al di là dell’auto consapevolezza di questa sincerità, l’informazione soprattutto televisiva che arriva dall’Ucraina. Il cuore del reportage è la stazione, la stazione dove transita un’umanità che fugge dalla guerra, una umanità sofferente, spogliata di tutto, soprattutto della normalità di una vita normale. Il reportage acme dell’informazione è la documentazione e la condivisione di questo sgomento. E quindi gli ucraini vittime della guerra: l’ospedale bombardato, la famiglia sterminata in strada dal colpo di mortaio, gli edifici cittadini, le case, sventrate. Vittime, sugli ucraini vittime sappiamo dire, vedere. perfino in qualche misura immedesimarci. In questo l’informazione è sinceramente in sintonia con le categorie concettuali, con la cultura profonda della gente.
Ma l’ucraino come popolo combattente e non solo vittima, anzi l’ucraino come popolo combattente al di là di ogni previsione, l’ucraino come popolo in armi e non solo nei rifugi o in fuga, questo no, questo ce lo raccontiamo di meno e facciamo una gran fatica a vederlo. Ci sentiamo più in regola e in pace nella compassione per la mamma piangente che nel sostegno al combattente in divisa. Come se condividere, anche solo per via di presa d’atto, della natura di combattenti degli ucraini compromettesse la nostra buona (e falsa) coscienza.
Un’epica combattente anche minima ci pare non sia il caso sia concessa ad un popolo che pure sta combattendo, un popolo in armi. Facciamo una gran fatica, anzi non ce la facciamo proprio a raccontare gli ucraini come soldati perché a fondo nutriamo l‘ingannevole illusione di poter stare con gli ucraini vittime e non come soldati. Non è solo e soltanto ipocrisia, anzi è molto poco ipocrisia: è genuina inadeguatezza. Il combattente è stato espulso dalla nostra cultura: cadere in guerra é “assurdo”, la divisa e le armi solo a “professionisti”, nel combattere per la patria o la libertà abbiamo abraso l’onore e lasciato solo l’orrore.
Nulla di male, anzi meravigliosa condizione di vita quella che ha consentito ad un paio di generazioni di sviluppare una simile cultura di massa. Alla sola condizione, per ora elusa, che, quando c’è un aggressore, il saper vedere solo vittime non diventi il saper essere solo vittime. Alla sola condizione, per ora elusa, che, quando c’è un popolo che combatte, il non saperlo raccontare in armi non prometta e contenga il noi non combatteremo mai.