di Cristofaro Sola
Ma che gli dice il cervello ai bravi colleghi dei media? Le guardano o no le immagini che giungono dai teatri di guerra? L’esercito russo sta massacrando gli ucraini, non il contrario. Le principali città dall’Est e del Sud del Paese, fino alla capitale Kiev, sono strette in una morsa di fuoco dalla quale è sempre più difficile uscirne vivi. Vladimir Putin non si fermerà fino a quando non avrà preso tutta l’Ucraina. La resistenza coraggiosa che i suoi abitanti oppongono può soltanto ritardare, non cancellare, l’inevitabile. Tutto questo si poteva impedire? Certamente sì, ma avremmo dovuto avere ai vertici degli Stati occidentali classi dirigenti all’altezza della gravità del momento, molto più lungimiranti e accorte della banda di dilettanti che oggi è al potere, in Europa e negli Stati Uniti. Non se ne salva nessuno. Invece di costringere l’interlocutore russo a un serio negoziato che avesse come obiettivo primario la sicurezza del quadrante continentale, Stati Uniti e Unione europea hanno ciurlato nel manico, valutando che si potesse azzoppare il gigante russo combattendolo per interposta nazione. Fantastica la battuta, attribuita al giornalista Toni Capuozzo, sull’eroica decisione delle forze occidentali di combattere la Russia fino all’ultimo ucraino. Già, perché l’unica certezza di questo spericolato looping è che sarà strage di popolo. Piaccia o no.
I governi occidentali si sono infilati in un cul-de-sac dal quale non vengono fuori. L’unica via d’uscita percorribile, per rovesciare il destino segnato dell’Ucraina, è ingaggiare un conflitto aperto tra la Nato e l’Armata russa. Non condurrebbe necessariamente alla fine del mondo, anche se in campo vi sarebbero le due maggiori potenze nucleari, ma una guerra combattuta su suolo europeo sarebbe scontata. Ipotizziamo che l’escalation militare porti entrambe le parti a non utilizzare tutto il potenziale offensivo del quale dispongono. Perché la guerra non si globalizzi, le superpotenze – entrerebbe in gioco anche la Cina – potrebbero concordare di non attaccarsi direttamente con le testate nucleari montate su vettori intercontinentali ma limitarsi a un confronto armato convenzionale, lontano dai rispettivi confini geografici. L’Europa sarebbe il terreno ideale per un regolamento di conti. D’altro canto, come la storia insegna, lo è stato per millenni, fino al 1945. Certo, gli statunitensi saranno al fianco degli europei perché lo impone il patto dell’Alleanza atlantica. Ma impiegare forze di terra, di mare e d’aria in un conflitto allargato di tipo convenzionale non comporta automaticamente che nella stanza ovale, a Washington, venga aperta la valigetta con i codici dei missili nucleari da sganciare sul territorio russo.
Uno scenario di guerra allargato a Ovest coinvolgerà necessariamente l’Italia che dovrà schierare proprie truppe al fianco dei resistenti ucraini. Per noi l’Ucraina non sarebbe una scoperta. Ci siamo già stati. La prima volta fu nel 1855. Non era ancora Italia ma il contingente militare inviato in Crimea rappresentava il Regno di Sardegna. A quel tempo non esisteva un’Ucraina indipendente dalla Madre Russia. I “piemontesi”, mandati a sostegno delle forze anglo-francesi, si ritrovarono a combattere contro l’esercito dell’Impero russo. Furono i giorni gloriosi di Balaklava e della Cernaia e di eroi d’altri tempi, come il generale Rodolfo Gabrielli di Montevecchio, caduto in battaglia sulle alture della Cernaia e del quale si ricorda la celebre frase pronunciata in punto di morte – e che a noi scolari delle Elementari negli anni Sessanta le maestre facevano imparare a memoria insieme alla Canzone del Piave – “muoio contento, oggi, giorno di gloria per le nostre armi; muoio come vissi, per servire il Re e la Patria!”. In quella circostanza andò bene. A Camillo Benso conte di Cavour fu consentito di sedere al tavolo della pace dal lato dei vincitori. Andò meno bene con il costo in vite umane della spedizione. Dei 18.058 uomini (1.038 ufficiali e impiegati, 17.020 sottufficiali e soldati e 3.496 cavalli) che componevano il Corpo di spedizione, le perdite registrate non riguardarono il conflitto armato quanto la cattiva salute dei soldati esposti alle malattie e alla scarsità di cibo: 2.278 morirono per colera, 1.340 per tifo, 452 per malattie comuni, 350 per scorbuto, 52 per incidenti, 38 per febbri tifoidee, 3 per suicidio e 32 caduti in combattimento.
La seconda volta in Ucraina fu nel 1941, durante la Seconda guerra mondiale. Eravamo lì, al fianco dei tedeschi in territorio dell’Unione Sovietica. Anche in quella circostanza si compose un Corpo di spedizione. E i luoghi che oggi suonano familiari per averli sentiti nominare a proposito dei bombardamenti russi, nel 1941 erano più che noti agli italiani. Nel bacino industriale del Donez, sulle rive del Dnepr, a Mariupol, giunsero le nostre divisioni: la Torino, la Pasubio, la Celere “Principe Amedeo Duca d’Aosta”, a cui successivamente si aggiunsero la “Tridentina”, la divisione alpina “Julia” e la “Sforzesca”; il XXX Raggruppamento Artiglieria di Corpo d’armata, il 61° Gruppo d’osservazione aerea e il 22° gruppo da caccia della Regia aviazione. E ci furono anche le “camicie nere”, inquadrate nella 63ª Legione CcNn d’Assalto “Tagliamento” al comando del Console Niccolò Nicchiarelli. Non mancarono giornate epiche per le armi italiane, durante la prima battaglia difensiva del Don che, nell’estate del 1942, coinvolse il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir), nel frattempo rinominato XXXV Corpo d’Armata, sotto il comando dal generale Giovanni Messe. Qualcuno ricorda le gesta del mitico “Savoia cavalleria” che, il 24 agosto 1942, sotto il comando dal conte Alessandro Bettoni Cazzago fu protagonista, a Isbuscenskij, della penultima carica di cavalleria della Seconda guerra mondiale (l’ultima fu a Poloj in Croazia il 17 ottobre 1942 ad opera del “Cavalleggeri di Alessandria” del colonnello Antonio Aimone Cat). Cavalli e sciabole contro nidi di mitragliatrici e mortai dei battaglioni siberiani della 304° Divisione di fanteria sovietica.
Nonostante l’eroismo, quella spedizione non finì bene. Non sono poche le famiglie italiane che annoverano dispersi nella tragica “ritirata di Russia” del 1943. Ne uscimmo a pezzi, ma con onore. I nostri lottarono come leoni, salvando la loro umanità. Cosa che venne riconosciuta dal nemico. L’onorevole Giuseppe Codacci Pisanelli, in veste di presidente dell’Unione interparlamentare, incontrò il 3 novembre 1961 a Mosca Nikita Krusciov, leader sovietico e padre della politica di “coesistenza pacifica” con il blocco occidentale, il quale gli confidò: “Voi italiani non siete cattivi. Ho combattuto contro gli italiani nel bacino del Donez e avevo di fronte proprio le Camicie nere che ritenevo i più malvagi tra gli italiani. Avevano combattuto bene e pensavo che fossero accaniti contro di noi. Dopo aver interrogato numerosi prigionieri ho dovuto constatare che non avevano odio nei nostri confronti”.
Si obietterà: oggi non è come allora, restiamo pur sempre brava gente ma stavolta siamo dalla parte giusta della Storia. Ok, d’accordo. Se la situazione dovesse precipitare, faremo tutti la nostra parte, a cominciare dai ragazzi con le stellette. Ma la domanda è: siamo preparati a un compito di tali dimensioni e gravità? Dieci anni e passa di governi presidiati dalla sinistra ci hanno indebolito oltre misura. La parola d’ordine è stata: ridurre le spese per la Difesa e trasformare alla lunga l’esercito in una sorta di Protezione civile rafforzata. C’è stata una parlamentare del Partito Democratico, vicepresidente del Senato nella passata legislatura, che predicava la riconversione della flotta navale della Marina in unità di soccorso e raccolta dei migranti dalle sponde del Mediterraneo. Ci siamo fatti sfilare la Libia sotto il naso, senza emettere un fiato. Abbiamo permesso che turchi e russi ne facessero un proprio terreno di caccia. Adesso rivendichiamo come grande azione diplomatica il fatto che il ministro degli Esteri vada in giro per l’Africa e dintorni con il cappello in mano a cercare qualche anima buona che ci venda il gas, di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, in sostituzione di quello russo. Si può essere più patetici? Rifacciamo la domanda: siamo consapevoli di quale strada senza ritorno stiamo imboccando? E, soprattutto, siamo convinti di voler immolare il nostro futuro sull’altare della guerra alla Russia? Perdonate lo scetticismo, ma qualche dubbio l’abbiamo.