Dopo il crollo del nazismo e del comunismo e la cessazione di ben due conflitti mondiali, che hanno segnato il secolo scorso, sembrava profilarsi un’aurora di pace sull’umanità intera nel nuovo millennio. L’accendersi o il riacutizzarsi di conflitti non più basati sulle ideologie, ma sul fanatismo etnico o religioso, con le brutalità che ne sono conseguite, ha rotto l’incantesimo ed ha posto il mondo civile innanzi al problema dell’ingerenza umanitaria, cioè della possibilità di effettuare un intervento armato all’interno di uno Stato sovrano, con il fine preminente di proteggere popolazioni civili vittime di gravi e reiterate violazioni dei diritti umani fondamentali.
Nell’età dell’illuminismo si diffuse compiutamente il pensiero di una “ragione universale” uguale ovunque e tra gli uomini di ogni era, assertrice di diritti naturali perenni la centralità dell’uomo e della sua dignità, ben presente nel mondo greco –romano, nell’ebraismo e nel cristianesimo, cioè nelle principali radici della cultura europea, fu recepita dal Nuovo Mondo nella Dichiarazione americana dei Diritti dell’Uomo del 1776, e tredici anni dopo venne altresì inserita nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino della Francia rivoluzionaria.
Dopo la Seconda guerra mondiale si realizzò a livello internazionale un significativo ampliamento di prospettiva, in quanto non più e non solo il singolo individuo, ma interi gruppi, comunità e minoranze divennero oggetto di guarentigie internazionali.
Con questo spirito fu siglato 1’8 agosto 1945 l’Atto di Londra per la repressione dei crimini contro la pace, dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. Poco prima, il 24 giugno, era stata redatta la Carta di San Francisco, istitutiva delle Nazioni Unite, aventi lo scopo di assicurare lo sviluppo ed il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione. Cinque anni dopo fu sottoscritta la Convenzione europea per la protezione dei diritti umani, che sulla stessa falsariga così recitava: “Tutti sono uguali innanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’uguale tutela da parte della legge”.
Alla stregua di siffatte premesse normative, le successive “pulizie etniche”, le discriminazioni razziali, le repressioni brutali del dissenso nei regimi totalitari, avrebbero costituito altrettanti crimini a livello mondiale: la Grecia dei Colonnelli, il Cile di Pinochet, l’Argentina di Videla, Cuba, la Cina maoista, l’Urss ed i suoi satelliti, ed a seguire la ex Jugoslavia, Timor Est, il Ruwanda, l’Iraq, la Siria, per finire oggi con la Russia di Putin. Innanzi alla violazione di diritti fondamentali all’interno di uno Stato, come quello alla vita, alla libertà, alla proprietà, di cui lo stesso Stato ha il compito prioritario di assicurare il pacifico godimento, scatta da parte della collettività il “diritto di resistenza”, definito “il diritto del singolo o di gruppi organizzati o di organi dello Stato, o di tutto il popolo, di porsi con ogni mezzo, anche con la forza, all’esercizio arbitrario e violento, non conforme al diritto, del potere statale”. Diritto questo vieppiù forte nei riguardi dell’aggressore straniero, come testimoniato dell’eroica resistenza dell’Ucraina contro la guerra di conquista proditoriamente scatenata da Putin, condita da falsità e da discorsi che ci rifiutiamo di definire “ragionamenti”, in quanto oltraggiosi per l’intelligenza di qualunque uomo dotato di discernimento e di retta coscienza: si tratta di dolose confusioni tra aggrediti ed aggressori, nella fraudolenta deformazione del concetto di pace.
Nel XX secolo il diritto di resistenza si è manifestato con particolare vigore nei Paesi totalitari, ma non in quelli liberi, dove non avrebbe ragione di esistere perché – in Italia lo evidenziò efficacemente la Commissione per la Costituente – è incompatibile con lo Stato democratico, nel quale il popolo “ha competenza di interventi diretti per determinare il funzionamento dei poteri supremi”. Innanzi a dittature sanguinarie, dove i popoli non riescono da soli a liberarsi dal terrore che li opprime, la collettività internazionale non può limitarsi a blande esecrazioni verbali, ma ha il dovere morale e giuridico di intervenire, senza che ciò possa ritenersi violazione di alcuna sovranità, dato che quest’ultima non è una sacrale astrazione, ma trova fondamento concreto nell’esercizio di un potere di rappresentanza di interessi della collettività, che solo il consenso della stessa può legittimare.
Al diritto di Resistenza interno ad un Paese, si affianca quello di ancor più ampia portata esercitato contro un aggressore esterno: se una guerra è giusta o meno, non possono deciderlo le sorti della stessa, ma le condizioni che la hanno resa necessaria. Nel caso dell’Ucraina, non c’è stata alcuna dignitosa alternativa alla resistenza, ed il concorso a titolo volontario di un intero popolo in armi contro un aggressore tanto più potente in termini di armamenti, quanto più debole in ordine alle motivazioni, ne è la riprova. L’inerzia o l’intempestività dell’Onu innanzi a tante situazioni che necessitano rapidità di decisione e di intervento, sono dovute alla obsolescenza delle procedure che ne disciplinano l’agire ed il diritto di veto spettante a ciascuno dei 5 grandi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna).
La Carta dell’Onu prevede l’autodeterminazione dei popoli, il progresso sociale e la promozione dei diritti fondamentali. Le controversie internazionali devono essere risolte con dei mezzi pacifici in modo che la pace, la sicurezza internazionale e la giustizia non siano messe in pericolo. Gli Stati membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza – prosegue il documento – sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite.
Ribadito il dovere di non intervenire in questioni “che appartengono alla competenza interna di uno Stato” come regola generale, lo Statuto dell’Onu ne ammette l’eccezione nel caso di minacce o violazioni della pace e nell’ipotesi di atti di aggressione. L’articolo 51 della Carta in esame, sancisce con un potere che evidentemente è solo ricognitivo e non costitutivo, che “nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. È peraltro il diritto vivente, cioè il sentire dei popoli martoriati ed oppressi, che deve prevalere sull’inazione cui sono altrimenti costrette le Nazioni civili a causa dei paralizzanti bizantinismi dell’Onu. Purtroppo neanche l’Unione europea, nata con una forte vocazione equilibratrice nello scacchiere internazionale, e per irradiare ovunque nel mondo la cultura della pace e della solidarietà, non è riuscita ancora a creare l’auspicato “Corpo europeo cli pace” per potenziare gli interventi umanitari.
Dal Concilio ecumenico Vaticano II, integrato dagli insegnamenti dell’ultimo Catechismo, in tema di legittima difesa militare si richiede:
1) che il danno causato dall’aggressore alla Nazione o alla Comunità delle Nazioni sia durevole, grave e certo;
2) che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;
3) che vi siano fondate condizioni di successo;
4) che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare.
La Santa Sede dunque, innanzi alla sussistenza di determinate condizioni, consente l’uso della forza.Quando una sovranità nazionale con gravi atti, come nel caso dell’eliminazione di interi gruppi etnici, religiosi o linguistici, va contro il bene fisico, morale, culturale e religioso delle popolazioni sottoposte alla propria giurisdizione, compie dei crimini contro l’umanità e contro Dio. Ciò autorizza altre autorità – specie quelle superiori, qualora esistano – all’intervento in favore dei gruppi oppressi, sulla base di regole internazionali comuni e certe. Gli argomenti della sovranità nazionale e della non ingerenza, non possono essere addotti come pretesto per impedire l’intervento in favore delle persone aggredite. Finita la II guerra mondiale, Pio XII plaudì alla costituzione del Tribunale di Norimberga per la punizione dei criminali, e dopo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ribadì il desiderio della realizzazione di un ordine universale aderente alle eterne verità ed alle leggi divine. Nel 1952, sconfessando l’irenismo a senso unico che già imperversava tra i marxisti, dichiarò che nel caso di aggressione. Gli Stati colpiti avevano il dovere di difendersi e l’Onu di intervenire, specie quando erano in discussione beni come la fede, la giustizia, la libertà.
Papa Giovanni XXIII, il cui appassionato impegno valse ad evitare nel 1961 lo scatenamento di una terza guerra mondiale in séguito alla crisi di Cuba, nell’enciclica Pacem in Terris riaffermò, sulla linea dei predecessori, la necessità di un ordine internazionale basato sulla morale cristiana e sul rispetto che ne derivava, di diritti inviolabili ed inalienabili come quello alla famiglia, alla giusta retribuzione, alla proprietà privata, all’associazionismo. Con Paolo VI il richiamo alle Nazioni per un serio impegno in favore dell’armonia tra i popoli, fu ancorato alla celebrazione di una “Giornata della Pace” da tenersi ogni anno con la partecipazione dei rappresentanti di tutte le fedi.
Confermata la dottrina ormai consolidata della giustezza di una guerra volta ad abbattere una tirannia palese e prolungata “che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona”, papa Montini ammonì che la pace andava difesa non solo dalle tentazioni delle guerre di aggressione, ma anche “contro le insidie di un pacifismo tattico, che narcotizza l’avversario da abbattere, e disarma negli spiriti il senso della giustizia, del dovere, del sacrificio. Pace non è pacifismo – precisò il Pontefice – non nasconde una concezione vile e pigra della vita, ma proclama i più alti e universali valori della vita: la verità, la giustizia, la libertà, l’onore”.
Giovanni Paolo II, durante lo sfaldamento dei territori della ex Jugoslavia ed i conseguenti scontri interetnici, dal suo letto di dolore al Policlinico Gemelli, il 7 agosto 1992 fece diramare una nota “per fermare questa guerra, per recare soccorsi alle popolazioni e per indagare sulle accuse di atrocità nei campi di concentramento”. Gli Stati europei e le Nazioni Unite – ammonì il Santo Padre – “hanno il dovere ed il diritto di ingerenza, per disarmare chi vuole uccidere. Noi cercheremo in tutte le istanze di ottenerlo. È un diritto in favore dell’umanità, e questo lo facciamo per tutti, cristiani e musulmani”. Il torpore dell’Onu fu scosso dall’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, in seguito al quale sia la Santa Sede che le Nazioni Unite consentirono alla guerra che per legittima difesa gli Usa dichiararono all’Afghanistan dei Talebani, che avevano dato compiacente copertura alla rete terroristica di Bin Laden.
Oggi, innanzi all’algida follia dell’aggressione all’Ucraina, memori dei precetti universali del diritto romano, formuliamo il sommesso auspicio che l’Aequitas Rudis (cioè quel che la retta coscienza dei più percepisce come giusto), possa tradursi in una nuova lex scripta, cioè in una nuova configurazione dei fini prioritari e delle procedure proprie dell’Onu, che al momento non sembra più in grado di rappresentare adeguatamente il comune senso della giustizia internazionale e suscita non immotivati dubbi sull’utilità stessa dell’Onu stessa nell’attuale configurazione Papa Francesco – come è noto – ha voluto recarsi personalmente dall’ambasciatore russo presso la Santa, Alexander Avdeev, due giorni dopo l’inizio dell’aggressione russa, per perorare la causa della pace. Ha poi contattato il primate ortodosso Kirill, notoriamente fedelissimo di Putin, in un ulteriore tentativo di mediazione per la pace; ma anche questo passo non ha avuto fino ad oggi alcun esito, salvo il condiviso auspicio per la pace.