di Alessandro De Angelis
Mai si era visto, da quando è stato chiamato a palazzo Chigi, un Draghi così duro, segno che la misura è davvero colma. Sceglie il massimo della drammatizzazione possibile il premier, dopo l'incontro con Conte, per mettere la parola fine all'indegna sceneggiata di giornata. Sale al Colle, lì dove ha ricevuto un anno fa il mandato legato anche alla sua forza reputazionale nei consessi internazionali. E, da quella sede, consegna, evidentemente d'intesa col capo dello Stato, un messaggio ultimativo, pugnace, rispondendo colpo su colpo.
Conte dice che le spese militari non sono nel "patto di governo"? Draghi risponde, senza riferimenti personali, che "mettere in discussione gli impegni assunti a livello internazionale significa mettere in discussione il patto che tiene assieme la maggioranza". Perché, sottotesto, il primo punto dell'agenda di governo è la credibilità internazionale. E, come ha ricordato Lorenzo Guerini citando Kissinger, "nelle relazioni internazionali la reputazione dell'affidabilità è una risorsa più importante della dimostrazione di abilità tattiche".
E ancora. Il copione dell'ex premier prevede una facile propaganda che suona più o meno così: "Non consentiremo che in nome della corsa al riarmo si tolgano denari per la povera gente". È da giorni che batte su questo tasto. Draghi ricorda che quegli impegni, che prevedono l'aumento della spesa militare del due per cento del Pil e sottoscritti nel 2014, non sono mai stati messi in discussione neanche durante i governi Conte, durante i quali le spese militari sono aumentate. Mettendo nero su bianco le cifre: nel 2018, quando Conte è arrivato a palazzo Chigi, si registravano 21 miliardi, nel 2021 quando è uscito si registravano 24,6 miliardi, ovvero un aumento del 17 per cento. E dunque, sottotesto, delle due l'una: o anche i governi Conte erano governi di guerrafondai affamatori del popolo oppure siamo di fronte alla malafede più conclamata.
Diciamo le cose come stanno: non c'è, nel breve periodo, un voto sulle spese militari, con annessi rischi per il governo. Non è tale l'ordine del giorno che si è discusso al Senato, né il decreto Ucraina e nemmeno il Def. Dell'argomento se ne discuterà in manovra. E allora perché Draghi ci è andato così duro, anche se se ne parlerà tra cinque mesi? È il cuore della questione: perché c'è un discrimine invalicabile tra la responsabilità di governo e l'irresponsabilità della facile propaganda. E riguarda, proprio in questo momento, l'esigenza primaria di fugare ogni ambiguità: di collocazione, serietà, affidabilità.
È questo baratro di distanza che ci consegna la giornata odierna. Immaginate la scena: Draghi, che ha appena riattaccato la cornetta dopo aver parlato con Macron e Biden, sulla drammatica crisi Ucraina, si vede entrare a palazzo Chigi Conte che recita il copione di Casalino. Nel frattempo in Senato va in scena una gazzarra dell'ordine del giorno su cui i Cinque Stelle, dopo aver votato a favore alla Camera, vogliono votare contro. Da un lato Biden e le tv che trasmettono le immagini di Kiev, dall'altro un festival della propaganda attorno al nulla politico. È questo il nuovo format messo in scena da Giuseppe Conte per consacrare la sua elezione a capo dei Cinque stelle con 60mila voti, la metà degli aventi diritto, e meno della volta scorsa. Per ritornare a favor di camera, dopo mesi di eclisse politica, come se fosse un leader, tentativo tardo-morettiano di farsi notare alla ricerca di un distinguo che liscia il pelo a una parte di opinione pubblica.
Dunque non c'è un voto nell'immediato ma, nell'era dell'interconnessione globale è tutto ciò è sufficiente a trasmettere l'idea di una Repubblica delle banane in mondovisione: un paese inaffidabile, agli occhi dei partner e delle opinioni pubbliche internazionali, in cui tutto è legittimo e non si paga mai un prezzo. Mettetevi comodi: non ci sarà nessuna crisi, non ci sarebbe stata neanche senza questo sonoro "vaffa" di Draghi a Conte perché poi, anche tra i sedicenti puri, la cadrega vale ben oltre il due per cento sulle armi. Chissà se basta a stroncare sul nascere il tentativo di logoramento del governo. Quantomeno dovrà andare in scena su altri terreni.