Gente d'Italia

Miti, fiabe e racconti calabresi

Il tesoro di Alarico

Il Mito del Tesoro di Alarico da sedici secoli mantiene gli occhi puntati su Cosenza, dove, secondo la tradizione, è sepolto nel letto del fiume Busento il re Visigoto e il suo immenso tesoro.

Il 24 agosto del 410, primi dopo 800 anni i Visigoti entrarono a Roma devastandola e saccheggiandola.

Il mondo romano cadde nel caos e l’evento ebbe un impatto dirompente sul mondo antico.

L'imperatore d’Oriente Teodosio II, proclamò a Costantinopoli tre giorni di lutto; San Girolamo si chiese, smarrito, chi mai poteva sperare di salvarsi se Roma periva; Sant'Agostino, nel De Civitate Dei, vide questo disastro come un segno della prossima fine del mondo.

Dopo tre giorni di saccheggi e devastazioni Alarico lasciò Roma carico di oro e schiavi, risparmiò solo le chiese e il tesoro di San Pietro.

Con il suo esercito si diresse nel Bruzio, puntando verso Reggio, l'attuale Reggio Calabria, per poi salpare alla volta della Sicilia e, successivamente, verso l’Africa: sua ultima meta.

Tra i suoi prigionieri prese anche Attalo e Galla Placida, figlia di Teodosio il Grande e sorella dell’imperatore.

Giunti a Reggio, mentre si imbarcavano, i Visigoti furono colpiti da una tempesta, durante la quale perirono molti uomini.

Dopo questo sinistro evento, Alarico ripartì verso nord per riorganizzare i suoi obiettivi, ma giunto nei pressi di Cosenza il re Visigoto morì.

Secondo il mito, i Visigoti deviarono il corso del fiume Busento, seppellirono Alarico con una parte del tesoro e riportarono nuovamente il fiume al suo corso naturale.

Per sigillare in eterno il segreto del luogo della sepoltura, i Visigoti uccisero tutti gli schiavi che avevano lavorato alla costruzione, in modo che nessuno potesse ritrovare la tomba.

Ad oggi, il tesoro e il corpo Alarico, sono ancora sepolti nel letto del fiume Busento.

IL CROCIFISSICCHIU DI COSENZA

Nella zona Arenella, a Cosenza, lungo il fiume Crati, si trova una chiesetta detta "U Crucifissicchiu": il piccolo crocifisso, dove si venera un’impronta di una croce su una pietra posta sull’altare.

Un giorno, una donna raccolse dal letto del fiume una pietra e se la portò a casa per i suoi domestici.

La notte le venne in sogno Gesù e le disse di riportare la pietra nel luogo in cui era stata raccolta e di erigere una chiesetta in quel punto.

Al mattino, la donna si accorse che sulla pietra era presente l’impronta di un crocifisso, segno che non era presente al momento della raccolta.

La notizia fece il giro di Cosenza e si iniziò la costruzione della chiesa, dove sopra l'altare fu posta la pietra del crocifisso.

Dal giorno della consacrazione della chiesa, mai, straripando, il fiume allagava la chiesa, limitandosi solo a lambire il piccolo edificio.

Solo in un'occasione, una grande piena entrò nella chiesa, ma al calare delle acque, i fedeli trovarono accesa la lampada situata vicino al crocifisso, e nonostante la patina del fango segnasse che la piena era arrivata fino al soffitto, la lampada ardeva ancora e il crocifisso era pulito.

Gli albanesi di Calabria: la Gjitonia Arbëreshë di Caraffa di Catanzaro 

Siamo a Caraffa di Catanzaro, Garrafë in lingua Arbëreshë. Un piccolo e particolare comune abitato oggi da poco meno di 2.000 residenti, ubicato nel tratto più stretto della Calabria, tra Catanzaro e Lamezia Terme, lì dove nelle giornate serene è possibile ammirare i due mari, lo Ionio e il Tirreno.

Stiamo parlando di un tratto particolarmente bello della Calabria. Interessante anche per la sua dimensione strategica capace sin da epoche molto remote di attrarre l’attenzione di popolazioni che scelsero questi luoghi per costruire i propri insediamenti.

I luoghi - Per citarne solo alcuni: Catanzaro, il capoluogo di regione abitato sin dal Neolitico, o Tiriolo, anch’esso abitato già del periodo del Neolitico e pare fondato dagli Ateniesi e conquistato intorno al 500 a.C. dai Bruzi (popolazione di stirpe indoeuropea). Una curiosità, a Tiriolo nel 1640 fu scoperto il Senatus Consultum de Bacchanalibus datato 186 a.C. Si tratta di una tavoletta di bronzo recante il divieto di tenere baccanali oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna.

E ancora, Squillace che secondo la leggenda fu fondata da Ulisse e che nel 485 circa diede i natali al grande Cassiodoro, politico, letterato e storico romano. Fondatore del Vivarium considerato la prima Università in Occidente, un monastero luogo di cultura con l’obiettivo della copiatura, la conservazione, la scrittura e lo studio di testi classici.

Si potrebbe continuare praticamente all’infinito e allora, per fare un salto temporale, Maida, scenario della famosa battaglia del 4 luglio 1806 tra Francesi e Inglesi. In quel tempo le truppe Napoleoniche stavano per invadere la Calabria e completare l’occupazione del Regno di Napoli così gli Inglesi, temendo l’invasione della Sicilia, fecero sbarcare un corpo di spedizione di circa 5.000 uomini.

La Waterloo Calabrese fu una battaglia spettacolare con oltre 10.000 uomini schierati su due fronti, pare 5.000 soldati Inglesi e 6.000 Francesi. Nonché l’impiego dell’artiglieria navale della flotta inglese che fece la differenza per l’esito della battaglia determinando una svolta storica nell’impiego di armi pesanti nelle successive battaglie.

Ma ritorniamo a Caraffa di Catanzaro e alla Gjitonia Arbëreshë…

E’ giusto anticipare che la Gjitonia Arbëreshë, il vicinato, è quell’unità fisica, sociale e simbolica risultato, anche, delle particolarità urbanistiche e architettoniche degli insediamenti abitativi delle comunità Albanesi.

La Gjitonia Arbëreshë è infatti quel luogo circoscritto da poche case che si affacciano su una piazzetta dove, specialmente le donne, sedute su gradoni in genere murati, si riuniscono per svolgere le funzioni quotidiane, permettendosi anche qualche pettegolezzo. Qui architettura e antropologia s’incontrano quasi per esaltarsi.

E ancora, i Gjitoni (i vicini) pare si aiutino sia nello svolgere le attività produttive che in caso di esigenze scambiandosi, soprattutto in passato, anche prodotti alimentari, come prestarsi il pane. Instaurando così importanti e duraturi vincoli di solidarietà.

Così, come nelle altre comunità Albanesi, la Gjitonia Arbëreshë di Caraffa di Catanzaro è un luogo particolarmente importante per la comunità. Qui esiste e persiste ancora un antico detto popolare, fra l’altro decisamente diffuso, che restituisce l’essenza della Gjitonia Arbëreshë: Gjitoni è più che parente, il vicino è più intimo di un parente.

Franco Fileni, compianto professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, con evidente sapienza e sensibilità identificava la Gjitonia Arbëreshë come locus della cultura Arbëreshë. Perché è esattamente nella Gjitonia Arbëreshë che viene trasmesso il patrimonio orale da una generazione all’altra. E sempre nella Gjitonia Arbëreshë avvengono scambi di beni e di prestazioni secondo il valore d’uso.

Gli Arbëreshë di Caraffa di Catanzaro - Caraffa di Catanzaro ricorda il cognome della famiglia Carafa. Duchi di Nocera a cui gli Albanesi che qui decisero di insediarsi dedicarono il nome del villaggio probabilmente in segno di gratitudine per la concessione dei terreni.

A quanto pare, autorevoli storici sostengono che Caraffa di Catanzaro sia uno tra i primi insediamenti Albanesi d’Italia. Fondato intorno al 1448 in seguito di un’imponente ondata migratoria di milizie albanesi venuti in Italia al seguito di Demetrio Reres, e dei due figli Basilio e Giorgio.

Demetrio Reres, per l’aiuto prestato al Re di Napoli Alfonso D’Aragona, fu nominato governatore della provincia di Reggio Calabria e le sue milizie pare diedero origine a diversi paesi attorno a Catanzaro. Esattamente come Caraffa di Catanzaro.

Si ricordano anche Andali, Arietta, Carfizzi, Gizzeria, Marcedusa, Pallagorio, S. Nicola Dell’Alto, Vena di Maida e Zangarona, tutti comuni di chiare origini e identità Arbëreshë.

Per concludere - Come scrive Franco Fileni nel suo Analogico e digitale: Attualmente tutto ciò che è stato descritto si va disfacendo piano piano. Le strutture dei paesi stanno cambiando. L’emigrazione impoverisce le superstiti Gjitonie, che si stanno indirizzando sempre più verso il luogo in cui giacciono le vestigia del passato: la memoria.

E’ evidente che oggi le cose pare siano diverse dal passato, in ogni modo la Gjitonia Arbëreshë rimane quell’unità fisica, sociale e simbolica delle comunità Arbëreshë. Luogo ancora di trasmissione del sapere tradizionale, di incontri e di tanto in tanto di scambi sociali.

Le origini di Bagnara

Tanto tempo fa un giovane pastore di nome Gaziano, conduceva come consuetudine il gregge paterno fra le alture dell’Aspromonte e spesso, fermandosi sotto qualche albero, si ritrovava immerso nel silenzio della natura. In quella pace surreale, suonando il flauto costruito con le sue stesse mani lavorato con un ramo di castagno, faceva viaggiare la sua mente al di là dei boschi, verso il mare.

Un giorno, mentre riposava sotto l’ombra di una grande quercia, fu attratto dal canto fascinoso di una sirena e addormentatosi, in sogno vide emergere dalle onde del prospiciente mare una ragazza dall’aspetto regale ed affascinante. La visione lo attrasse talmente che abbandonò il gregge per cercare la splendida fanciulla. Scese per i pendii della montagna fino a raggiungere il mare soffermandosi sulla spiaggia in cerca di quella splendida ragazza ammirata in sogno; qui, il canto malizioso delle sirene lo trattenne nell’ansia tormentosa di rivedere quel volto che lo aveva fatto innamorare.

La visione ammaliatrice continuava a ripetersi giorno dopo giorno ma le ricerche del pastore sono state sempre vane lui, però, in segno d’amore, deponeva  una rosa su ogni luogo in cui la visione si era manifestata.

Pazzo d’amore, decise allora di costruire una zattera per affrontare il mare per tentare di rintracciare l’amata.  In balia delle onde e delle correnti approdò a Stromboli, dove incontrò Eolo, dio dei venti, che lo accolse per sette anni durante i quali il pastore imparò l’arte del navigare non smettendo mai di pensare alla donna del suo cuore.

Eolo impietosito dal dolore di Gaziano lo indirizzò verso la virtuosa reggia di una maga alla quale il pastore svelò il dramma segreto del suo amore. Dalla maga, Gaziano venne a sapere che la donna che cercava faceva parte delle ninfe della dea Teti, regina del mare, e che l’unico modo per rivederla era propiziarsi il favore della Grande Madre.

Grazie ad un vento favorevole, Gaziano tornò nella sua terra e per propiziarsi il favore di Teti, offrì alla dea un sacrificio invocando la grazia di rivedere la fanciulla dei suoi sogni. Fatto il sacrificio, apparve così una grande conchiglia dalla quale affiora la bella fanciulla che dal petto in su mostrava la sua fascinosa bellezza. Il pastore raggiante di gioia e in preda a forti emozioni le dichiarò immediatamente il suo amore, ma dalla giovane non ebbe alcun riscontro.

Gaziano, disperato e distrutto dal dolore si piegò sulle ginocchia e pianse talmente tanto che le sue lacrime si trasformano dapprima in acqua e poi in un torrente che scorreva verso il mare, riuscendo così a raggiungere per sempre la sua adorata Ninfa.

Fu così che dal torrente Gaziano, che ancora oggi scorre nei pressi del quartiere Marinella, ebbe origine la città di Bagnara.

La Madonna delle Grazie di Gallico

Nel Santuario della Madonna delle Grazie, ricostruito dopo il terremoto del 1908 sui resti dell’antico Santuario risalente al XV-XVI secolo, è custodito il quadro della Madonna delle Grazie risalente al ‘500-‘600. Il culto della Madonna  ha origine molto lontane da quando erano frequenti le incursioni degli arabi sulle coste di quella zona strategica e,  secondo la leggenda, vennero respinti grazie all’intervento della Madre Celeste. La festa della Madonna delle Grazie si svolge tra la seconda e la terza domenica di agosto: una serie di processioni che si articolano tra Gallico Superiore e Gallico Marina e le frazioni limitrofe, accompagnano il Quadro. La festa è preceduta  dalla celebrazione dei sette sabati della Madonna e, durante le processioni  vi è la tradizione di far accompagnare il quadro dai gruppi delle “verginelle”, formati da sette bambine. La ricorrenza del numero sette si riallaccia alla leggenda del giovane che, salvato in mare dalla Madonna, riuscì a realizzare la campana promessa in voto solo dopo sette tentativi.

La leggenda racconta che un bastimento carico di campane fu investito da una violenta tempesta durante l’attraversamento dello Stretto di Messina.  Una bufera che fece spaventare enormemente l’equipaggio e il comandante della nave che, vedendosi ormai perduti, iniziarono a pregare la Madonna implorando la salvezza ,e per voto, se ciò fosse avvenuto, promisero la costruzione di un tempio a Lei dedicato, con la campana più grande trasportata, là dove il bastimento sarebbe approdato per sua grazia.

Dopo la supplica dei marinai, all’improvviso la tormenta cessò e il bastimento approdò in tranquillità sulla spiaggia di Gallico. Qui, come promesso, fu edificato il tempio dedicato alla Madonna delle Grazie con l’installazione della campana più grande presente a bordo della nave. Tutto l’equipaggio dimorò a Gallico per tutto il tempo impiegato per edificare il tempio tranne il marinaio Santoro, un fonditore poco più che ventenne, dato per disperso durante la tempesta e considerato morto.

In realtà, il Santoro, durante la tempesta,  cadde in mare e fu portato poi dalle correnti in una spiaggia lontano da Gallico ma vivo.  Per diverso tempo visse di lavori diversi girovagando da paese in paese fino a quando non giunse a Gallico dove apprese della salvezza dei suoi compagni e di ciò che avevano fatto per ringraziare la Madonna prima di riprendere il loro viaggio. Il giovane  rimase commosso e volle anche lui contribuire al ringraziamento verso la Salvatrice sua e dei suoi compagni. Grazie al suo saper fondere, costruì per il tempio una seconda campana e rimase a Gallico fino alla fine dei suoi giorni.

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