3 aprile 1877. Nel piccolo paese di San Lupo, entrato a far parte della provincia di Benevento dal 1861, l’arrivo di un signore inglese con servitù e molti bauli al seguito suscita scalpore. Il gentleman, che ha preso in affitto una casa appartata vicino ai boschi, viene raggiunto il giorno seguente da altri servitori e altri bauli. Un eccitante avvenimento, per la gente del luogo, e un motivo di allarme per il comando dei carabinieri, che invia una pattuglia.
In realtà il ministro degli Interni Giovanni Nicotera è già stato informato da una soffiata: gli anarchici hanno in mente qualche azione in quella zona montagnosa tra Molise e Campania che si chiama Matese. Ma i carabinieri si muovono in autonomia, e decidono di stanare gli anarchici che, ne sono convinti, si sono accampati nella boscaglia.
Nessuno sa su quali forze possa contare l’avversario. Parte così una sparatoria alla cieca. Gli anarchici iniziano a sparare per primi e colpiscono tre carabinieri, uno dei quali morirà successivamente per un’infezione. Ormai sono scoperti e non resta altro che scappare. Il gentiluomo inglese, Carlo Cafiero, lascia la casa e insieme a Errico Malatesta, Filippo Maria Ceccarelli e altri, prende la via dei boschi. I fuggitivi si lasciano tutto dietro: provviste, coperte, i cavastracci che servono a pulire e ricaricare i fucili. Avevano programmato di essere in cento, sono solo in ventisei. Ma non hanno alcuna intenzione di rinunciare al “fatto insurrezionale”.
Dulcis in fundo: vengono distrutti i contatori meccanici applicati ai mulini per registrare i giri della ruota macinatrice e dunque calcolare l’odiosa tassa sul macinato, imposta otto anni prima dal governo per risanare le finanze pubbliche.
Carlo Cafiero parla. Non è un’arringa, la sua, ma una pacata per quanto appassionata lezione sul potere e sul nuovo assetto di società auspicato dagli anarchici: non sono necessari padroni e governati, dice; bisogna costruire una società di uguali; la terra deve essere di chi lavora. Gli dà man forte il parroco don Raffaele Fortini, che spiega che Vangelo e socialismo sono la stessa cosa e sprona la folla ad applaudire gli insorti.
La Banda si sposta a Gallo, paese vicino, e al prete accorso trafelato a chiedere chiarimenti Cafiero spiega le stesse cose, risultando convincente al punto che il religioso si rivolge subito ai compaesani per rassicurarli, e va in scena il copione già seguito a Letino. Presa di possesso del Palazzo del Municipio, falò in piazza, distribuzione dei soldi prelevati dalle casse dell’esattoria comunale.
L’11 aprile vengono sguinzagliati 12mila uomini per accerchiare ed arrestare i ventisei insorti. Impiegheranno tre giorni per costringerli alla resa. Il processo inizia l’anno seguente, seguito dai cronisti con estremo interesse. L’istruttoria si è conclusa con il rinvio a giudizio per reato di cospirazione volto a distruggere la forma del governo, suscitare la guerra civile, portare devastazione, strage e saccheggio contro una classe specifica di persone, costituzione di banda armata e ferite volontarie ai carabinieri. Viene evitato il Tribunale di guerra, che sicuramente avrebbe deciso per la fucilazione (si dice che sia intervenuta Silvia Pisacane, figlia di Carlo e adottata proprio dal Ministro Nicotera, che in gioventù – errore o saggezza? – aveva partecipato alla spedizione di Sapri). La linea di difesa mira non ad attenuare le responsabilità, ma a dare loro il significato preciso di una rivendicazione sociale: si deve parlare non di insurrezione, ma di giustizia per un’umanità che ha fame.
Nel collegio degli avvocati spicca il ventunenne Francesco Saverio Merlino, che fa ai giurati discorsi sul potere (agli anarchici insurrezionalisti non interessa conquistarlo, ma distruggerlo), sulla guerra civile (mai voluta), su cosa sia il “fatto insurrezionale” (il tentativo di provocare con l’esempio il risveglio delle coscienze necessario a portare a un cambiamento vero della società).
Poco più di un’ora di discussione e gli imputati vengono amnistiati per tutti i reati e assolti dall’accusa di aver provocato la morte del carabiniere (viene accettata la tesi che il poveretto è stato malcurato). Il pubblico in aula applaude e i ventisei, ormai rimessi in libertà, tornano in carcere solo per espletare le necessarie formalità.
All’uscita dal carcere ci sono almeno duemila persone. Gridano, ridono, circondano i ventisei della Banda e li accompagnano a festeggiare in trattoria.
Nei quindici mesi trascorsi in carcere, gli anarchici avevano deciso di chiamarsi “Banda del Matese”, gruppo che costituirà una sezione dell’Internazionale antiautoritaria e che con questo nome resterà nella storia.