Di Franco Manzitti
Devastati dalle immagini della guerra in Ucraina, che mai avevamo visto così da vicino, gli orrori perfino inimmaginabili, annegati nei dibattiti di generali, politici, geopolitici, arruffapopoli, tecnici e giornalisti da divano e opinionisti di ogni razza e esibizione, incompetenti vanagloriosi, religiosi di ogni religione, eccetera eccetera, viviamo dopo la pandemia quello che mai avremmo immaginato.
E non ci rendiamo conto della realtà che si sta profilando e che cambierà per sempre il nostro orizzonte e quello delle generazioni che verranno, dei nostri figli, dei nostri nipoti, dei nostri pronipoti. Una nuova divisione totalizzante dei confini mondiali e una militarizzazione, inattesa e generalizzata, sta calando sul pianeta ancora ferito dalla prima pandemia globale.
Ci fermiamo, forse per rifiuto istintivo e difensivo, alle immagini di quelle pianure desolate, di quelle isbe bruciate dai razzi pilotati dai droni, da quei palazzi nelle città martire di cui abbiamo imparato, una ad una, il nome, di quei terribili cortei di carri armati, di quelle cataste_ dico cataste_ di corpi maciullati dalle bombe, chiusi in sacchi meri, semisepolti in buche da razzo russo, di quelle masse in fuga disperata, in attesa di un treno per salvarsi, che non arriva, mentre il razzo arriva e uccide indiscriminatamente.
Ci fermiamo, con un distacco visivo dalla coscienza profonda, a commuoverci fino alle lacrime davanti a quelle donne che piangono, che chiedono notizie, che scrivono sulle mani dei loro bimbi strappati via il nome e il numero di telefono, sperando che così un giorno potranno tornare.
Guardiamo, oramai dopo un mese e mezzo, senza alcuna speranza i minuetti delle trattative, dei conati di negoziati, che incominciano e spariscono, le parate militari, gli incontri dell’assassino Putin, tranquillo tra la sua folla plaudente.
Viviamo tutto questo senza confessarci quello che dovrebbe essere urlato.
E che ancora non urliamo perché qui in Europa siamo a due ore e mezzo di volo da quello scempio, sei ore di macchina e di furgone con dentro i generi di assistenza, che almeno quello ci muove un po’ la coscienza di dare una mano, e lì in America Latina siamo a 12 mila chilometri di lontananza, con un Atlantico e l’ Europa in mezzo. E possiamo solo calcolare, con qualche brivido ancora poco impercettibile le conseguenze materiali che incominceranno a piovere sulle nostre esistenze di popoli in sicurezza dal 1945, in espansione, in comfort, in globalizzazione di scambi e cultura e tutto.
Ma quale globalizzazione? E’ finita per sempre. Questo non vogliamo dirlo mentre, eppure, osserviamo la cartina geografica e misuriamo i confini come mai abbiamo fatto da decenni, dalla nostra intera vita, di generazioni protette, che la guerra era “altrove”, magari anche vicina, come quella della ex Jugoslavia, ma mai “pericolosa” per noi, magari in Irak, che seguivamo come un videogioco, per non tornare agli anni Sessanta-Settanta del Vietnam, un affare dei ragazzi americani, di tanti film, di tante canzoni, di un “Apocalypse now” che era come in un altro modo, anche se le bare con i marines americani, avvolte nella bandiera a stelle e strisce li vedevamo eccome, domandandoci con un interrogativo retorico al cento per cento: “E se fosse capitato a noi, che cercavamo di evitare la naja perché ci faceva perdere tempo negli studi, nella vita di lavoro?”
Nasceranno nuove economie belliche, che sconvolgeranno il mondo e in cui domineranno autarchie prepotenti e violente. Ci sarà un impero del male, che detterà le sue condizioni a Est e poi anche a Ovest.
Quel mappamondo che conoscevamo incomincia già a cambiare i suoi confini e i confini sono già in fase di armamento. E i paesi che facevano della neutralità una bandiera, come la Svizzera e ora la Svezia e la Finlandia, che chiedono di entrare nella Nato? Perché, perché su quei confini che scavalcavamo come si passa da un quartiere all’altro, senza neppure più il passaporto sono, appunto, armati, con le truppe che si stanno ammassando di qua e di là. Con gli aerei che sorvolano e la miccia di ben più preoccupanti esplosioni che sembra accendersi.
La mascheriamo la paura nucleare con aggettivi come bomba strategica, con termini tecnici “ a bassa gittata”, ma quello rimane il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki, l’incubo ancestrale di uno sterminio che fermava una guerra e ora è la paura attuale di qualcosa di terribile che potrebbe mettersi in moto.
Pensavamo il 24 febbraio, quando tutto è cominciato, che fosse una guerricciola, lontana, lontana e chi sentiva le cannonate? Ora è una minaccia che con ci fa dormire di notte.
Distratti dall’osservazione dei grandi fatti di politica internazionale, immaginavamo sigillate in altre latitudini le guerre continue del mondo, la Siria endemica dei misfatti davanti ai quali giravamo la testa altrove, la Libia delle guerre tribali di cui non capivamo molto, se non l’errore di avere eliminato, noi occidentali, Gheddafi. La Somalia, diventata terra dell’orrore, gli altri conflitti africani, giustificati dalla jhad islamica e mai minacciosi per noi.
Ora poi che il fantasma del terrorismo religioso sembrava essersi un po’ spento, dopo il Bataclan di Parigi, dopo la strage di Nizza, venti anni dopo le due Torri…...
E invece sbuchiamo in questo altro mondo, che non vogliamo ancora riconoscere, con la cultura in senso largo che era diventata il collante di un sentire universale, che ora è già piegata al Nuovo Ordine “diviso e militarizzato”.
Già si organizzano espressioni culturali legate a quelle autarchie, la grande madre Russia con i suoi eroi che non attecchiranno certo in Occidente. I cinesi, del gigante un po’ silente, un po’ minaccioso, che già sforna kolossal sulla sua storia di grandi eroi, di grandi conquiste.
Altro che truppe italiane mandate con il casco blu a operazione di pace keepeng!. Manderemo le truppe a vigilare sui confini Nato con il proiettile in canna e la tecnologia già mirata a immaginare lo scenario peggiore.
Non ce lo diciamo tutto questo. Non ce lo dice la politica, che avrebbe questo compito principale e, invece, se la guardiamo qui in Italia, la vediamo affannata in incredibili polemiche interne con una maggioranza che se non ci fosse cosa potremmo opporre al disastro che si profila?
Il premier Draghi va in giro a cercare forniture di gas alternativo a quello russo, lui che stava a Francoforte nella sua Banca Centrale a equilibrare economie in crisi o post crisi e dopo, da presidente del consiglio di totale emergenza, a gestire il Recovery Fund, già destinato al Quirinale e ingannato dalla bassa politica italiana…..
I tedeschi riarmano potentemente il loro esercito, che dal 1945 era bloccato anche dai rimorsi di quello che era avvenuto nella Seconda Guerra Mondiale.
La Terza Guerra Mondiale non osiamo neppure nominarla, se non qualche conduttore Tv a caccia di audience, in uno sfrenamento mediatico che spesso non tiene conto di nulla, della competenza, della prudenza, del linguaggio. I talk show trasformati in irresponsabili fiere delle vanità, sfornanti professorini irascibili e generali che sguazzano nelle manovre di guerra come topi nel formaggio.
D’altra parte chi è prudente oggi, con un presidente americano che parla di macellai, di genocidio e dopo tre ore i suoi lo correggono? Abbiamo l’imprudenza spesso del linguaggio, ma non quella di avvertire quello che sta avvenendo e che cambierà le nostre vite e quelle delle prossime generazioni in modo decisivo e totale, ad ogni latitudine, senza che capiamo la cosa fondamentale. Questo non è più un mondo di pace.