di Giorgio Merlo
In un recente libro pubblicato sul magistero politico e istituzionale di Carlo Donat-Cattin, "Un riformista al governo. Ministro del centro sinistra dal 1963 al 1978" di Marcello Reggiani emerge in tutta la sua difficoltà la scelta di essere "riformisti" nella politica italiana. Certo, le stagioni politiche che hanno visto in Donat-Cattin un significativo protagonista dello scenario pubblico italiano sono profondamente diverse rispetto al contesto contemporaneo. Ma è indubbio che c'è un filo rosso che lega le diverse stagioni politiche e le difficoltà, concrete e tangibili, nel declinare un riformismo politico e di governo. Perchè il riformismo, di norma, cozza contro il pensiero unico, il "politicamente corretto" e la vulgata conformista del momento.
Un solo esempio concreto riferito agli anni e all'esperienza concreta, politica, culturale e di governo di Donat-Cattin. Cercare di rappresentare i ceti popolari e, soprattutto, i lavoratori e gli operai nelle fabbriche come esponente della sinistra sociale della Dc dopo e come sindacalista Cisl prima era pressoché impossibile, perché inconcepibile dalla narrativa dell'epoca dove solo i comunisti e la sinistra storica potevano assolvere a quel ruolo. In altre parole, non era tollerabile che un democratico cristiano di sinistra, la famosa "sinistra sociale" di ispirazione cristiana denominata "Forze Nuove", potesse contendere la rappresentanza sociale e politica di quei ceti che storicamente, secondo la vulgata dominante, doveva essere di "appartenenza" del Pci e della sinistra.
Certo, i tempi sono cambiati e ormai da tempo la sinistra storica, come recitano quasi tutti i sondaggi, non rappresenta più i ceti popolari e quel pezzo di società e del mondo delle professioni che per moltissimi anni era di sua pertinenza. Altri soggetti politici e partitici si fanno ormai carico di quelle domande e di quelle istanze sociali e politiche. E quindi anche della loro rappresentanza elettorale.
Ma, al di là della sinistra e della sua rappresentanza sociale, è indubbio che essere riformisti nella politica italiana resta un compito difficile, ieri come oggi. E questo per due ragioni di fondo.
Innanzitutto il riformismo era e resta incompatibile con ogni forma di populismo. Quel populismo che in Italia ha fatto irruzione nel 1994 e che poi si è progressivamente impadronito della dialettica politica nostrana sino al 2018 quando ha travolto e sconvolto i connotati storici della stessa democrazia nel nostro paese. E il partito di Grillo, sotto questo versante, rappresenta tutt'oggi il culmine di questo decadimento etico, politico, culturale ed istituzionale. Stupisce, al riguardo, che un partito di potere e governista per eccellenza come il Partito democratico possa individuare nel partito cardine del populismo l'alleato strategico e storico per governare saldamente, e democraticamente, il futuro del nostro paese.
Perché il riformismo, alla fin fine, si pone l'obiettivo di trasformare la società senza assecondare le spinte massimaliste, estremiste e populiste. E cioè, la cultura e la prassi riformiste hanno la cultura di governo come bussola di riferimento senza, però, rinunciare ai propri obiettivi programmatici per inseguire e accattivarsi le mode correnti. Sotto questo aspetto, come descrive nel libro lo stesso Reggiani, il magistero politico e istituzionale di un esponente della prima repubblica come Carlo Donat-Cattin è quantomai calzante per il ruolo concreto che ha giocato nel suo partito di riferimento, la Dc appunto, e nella società nel suo complesso. Il rifiuto del populismo, quindi, è il cuore della cultura e della funzione riformista soprattutto nell'azione di governo.
In secondo luogo si è autenticamente riformisti solo quando si è espressione di una cultura politica. Qualunque essa sia. Perché il riformismo, di norma, risponde ad una visione della società e l'azione di governo conseguente ha come obiettivo ultimo, attraverso una necessaria ed indispensabile cultura della mediazione e del confronto, quello di tradurre quella cultura in atti di governo e in provvedimenti legislativi. Anche qui, per fare un solo esempio del passato, l'approvazione di una legge che ancora oggi resta uno dei caposaldi dello Stato di diritto e della civiltà democratica, ovvero lo "Statuto dei lavoratori", fu merito di un esponente politico come Donat-Cattin allora titolare del dicastero del Lavoro e della Previdenza sociale. Una legge che, non a caso, registrò la bocciatura da parte del Pci e di altre formazioni all'epoca estremistiche o massimaliste. Il riformismo, quindi, esige e richiede cultura di governo, disponibilità all'ascolto e al dialogo con gli avversari, non pretendere di possedere la verità in tasca, avere una visione laica della società e, soprattutto, il coraggio di andare controcorrente. Cioè contro il "politicamente corretto" dell'epoca di riferimento. Che, ieri come oggi, ha quasi sempre il consenso dell'informazione dominante e dei grandi gruppi di potere.
Ecco perché il recupero di credibilità della politica non passa attraverso l'esaltazione del populismo, del massimalismo e di ogni forma di estremismo. Al contrario, la cultura e la prassi riformiste sono necessarie e indispensabili se non si vuole consegnare il paese o nelle mani dei populisti di turno da un lato o dei tecnocrati o dei cosiddetti "esperti" dall'altro. Che, puntualmente, seguono quasi sempre le rovine e i disastri provocati dai populisti di governo. Come puntualmente è capitato nel nostro paese in questi ultimi anni. E questa, al di là di molte chiacchiere, sarà la vera sfida politica, culturale e programmatica per chi cerca di invertire la rotta rispetto al predominio populista di questi ultimi tempi. Il resto appartiene solo alla propaganda e al chiacchiericcio. E, in ultimo ma non per ordine di importanza, si può ritornare a essere politicamente riformisti solo se il "coraggio della politica" e delle scelte politiche tornerà al centro dell'attenzione. E l'esempio di Carlo Donat-Cattin uomo di governo, al riguardo, è quantomai esemplare e significativo.