di Federica Ferrario
La brutale invasione russa in Ucraina ha scatenato, oltre a una drammatica emergenza umanitaria, l'ennesima crisi del nostro sistema agroalimentare, a dimostrazione di quanto sia squilibrato e vulnerabile agli shock esterni a livello globale, europeo e nazionale.
La Commissione europea ha reso nota a fine marzo la strategia che intende adottare per affrontare anche le conseguenze legate alla guerra in Ucraina sul settore agroalimentare, annunciando di voler destinare 500 milioni di euro di aiuti finanziari agli agricoltori e di permettere che un altro miliardo di euro sia elargito da parte dei governi nazionali. La Commissione però, sostenuta da diversi Paesi membri - Italia compresa - ha anche detto di voler allentare le misure di protezione ambientale previste dalla Politica agricola comune (Pac). Sembra inoltre incline a ritardare l'attuazione degli elementi chiave del Green Deal e della strategia Farm to Fork su pressione dei lobbisti del settore agroindustriale (ad esempio la presentazione della direttiva sull'uso sostenibile dei pesticidi è già slittata).
L'impatto principale di questa guerra nei confronti degli agricoltori europei si traduce in una limitata riduzione dell'importazione di materie prime destinate alla mangimistica e in problemi nelle forniture di fertilizzanti sintetici, che in buona parte sono usati a loro volta per coltivare mangimi destinati alla produzione intensiva di carne.
Oltre il 60% dei terreni seminativi in Europa, infatti, è dedicato all'alimentazione degli animali, la maggior parte dei quali costretti in allevamenti intensivi. Inoltre, il 53% dei cereali usati in Europa è destinato all'alimentazione animale, mentre solo il 19% al consumo umano.
Per invertire questo paradigma, nel breve termine servono interventi per far sì che i governi dell'UE dirottino parte dei cereali e dei terreni agricoli attualmente destinati alla mangimistica verso la produzione di cibo. Questo significa ridurre le consistenze negli allevamenti europei, a cominciare da quelli suini e avicoli. Istituire inoltre una moratoria immediata alle autorizzazioni per nuovi allevamenti intensivi o all'ampliamento di quelli esistenti. E utilizzare i fondi di crisi dell'UE per aiutare gli agricoltori ad affrontare le sfide immediate per la transizione dall'attuale modello di produzione insostenibile, piuttosto che vincolarli ulteriormente all'attuale sovrapproduzione di carne e latte.
Sono inoltre necessari interventi per promuovere la resilienza del sistema agroalimentare a lungo termine. Due in particolare. Fissare obiettivi europei per ridurre la produzione zootecnica in modo da tagliare i consumi del 70% entro il 2030, e dell'80% entro il 2050, rispetto ai livelli attuali, in linea con le evidenze scientifiche sugli impatti sanitari e ambientali degli attuali livelli di produzione e consumo. Introdurre misure di sostegno economico per premiare gli allevatori che riducono il numero degli animali allevati, in particolare per passare dal sistema intensivo su larga scala ad allevamenti estensivi di piccola scala.
Non è col mantra della produttività a qualunque costo – moltiplicando coltivazioni e allevamenti intensivi, con i relativi fertilizzanti di sintesi usati per coltivarle - che ci metteremo al sicuro da future crisi. Anzi, così facendo rendiamo questo nostro sistema ancora più vulnerabile alle perturbazioni esterne. Meno carne e latticini, insieme a incentivi per le produzioni ecologiche, renderebbero l'agricoltura europea più resistente agli shock, sia a quelli imprevisti come questo conflitto, sia a quelli prevedibili come la crisi climatica.
Per tutelare la sicurezza alimentare è più efficace cambiare il modo di produrre e di consumare, piuttosto che spingere su un cieco aumento delle produzioni: trasformare il nostro sistema agroalimentare e passare a produzioni ecologiche, locali, stagionali e a diete a base vegetale, rendendo il sistema sostenibile e resiliente. Vanno in questa direzione le 7 proposte che Greenpeace ha inviato alla Commissione Ue, per avviare questa necessaria transizione.