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di Giuseppe Colombo

Il termine tecnico è "a regime". Significa produrre al massimo della propria capacità e a farlo dovranno essere le quattro centrali a carbone di Civitavecchia, Brindisi, Monfalcone e Fusina. È così che il governo italiano punta a tagliare circa tre miliardi di metri cubi di gas, che non sarebbero più impiegati per generare elettricità dato che una parte della produzione elettrica sarà appunto garantita dal carbone aggiuntivo. La quota può sembrare irrisoria se si considera che l'anno scorso l'Italia ha bruciato 76 miliardi di metri cubi, ma il rischio di ritrovarsi senza i 29 miliardi di metri cubi che arrivano dalla Russia si è fatto più forte dopo la decisione di Mosca di chiudere i rubinetti dei gasdotti che arrivano in Polonia e in Bulgaria. E quindi il ricorso maggiore al carbone, seppure a tempo, per un massimo di due anni, è indispensabile per imprimere un'accelerazione al piano di autosufficienza che si sta scrivendo in queste ore a palazzo Chigi.

Di certo il carbone, così come i volumi aggiuntivi di gas contrattati nelle ultime settimane con l'Algeria, l'Egitto, il Congo e l'Angola, non risolveranno il problema. Insomma una riduzione dei consumi è inevitabile perché il distacco energetico da Mosca non si può fare subito. Alla meglio potremmo essere "quasi indipendenti" dalla Russia, come ha spiegato il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, alla fine del 2023. E questo ragionamento trova conferma in un piano che per ora è tenuto nel cassetto, ma che è pronto a essere applicato in caso di escalation, se cioè verrà a mancare il metano che transita nei tubi che attraversano l'Ucraina e poi da lì verso la rete che sbocca al punto di ingresso di Tarvisio, in Friuli Venezia-Giulia. Lì dentro ci sono le misure di razionamento che riguardano la riduzione delle temperatura dei condizionatori e dei termosifoni, sulla scia di quanto deciso dal Parlamento per gli uffici pubblici, ma anche la possibilità di staccare le imprese dalla rete, a turno e per fasce orarie, provando a limitare l'impatto che comunque si avrebbe sulla produzione.

"Al momento non è prevista l'attivazione di alcuna misura di razionamento", spiega una fonte di governo di primo livello. Tra l'altro una o più misure di questo tipo devono accompagnarsi a un livello superiore rispetto a quello di pre-allarme dichiarato il 27 febbraio. Si dovrebbe passare cioè a un livello di allarme o a quello successivo di emergenza, ma la questione per ora non è stata presa in considerazione anche perché questi due livelli prevedono un ammanco significativo nelle forniture. Per ora perché la situazione si è complicata nelle ultime ore alla luce della decisione di Gazprom di fermare i flussi verso Varsavia e Sofia.

Anche il livello della preoccupazione si è alzato a palazzo Chigi. Sono settimane ormai che l'assenza del gas russo è stata messa nel conto, ma la mossa di Putin ha introdotto un ulteriore elemento destabilizzante perché un conto è l'embargo, tra l'altro da programmare non prima dell'autunno, un altro è subire un taglio immediato delle forniture, come quello che la Polonia e la Bulgaria si sono ritrovati a fronteggiare nel giro di poche ore. La differenza tra i due scenari è che nel primo c'è un margine di tempo, seppure esiguo, per rafforzare la strategia di diversificazione, provando a chiudere nuovi contratti con altri Paesi esportatori di gas, ma soprattutto attivando le altre azioni previste per rimpiazzare i 29 miliardi di metri cubi di gas russo.

Ecco perché nel decreto che sarà approvato al più tardi venerdì dal Consiglio dei ministri troverà spazio una norma che sbloccherà l'aumento della produzione nazionale di gas, crollata l'anno scorso a circa 3 miliardi di metri cubi. Non ci saranno autorizzazioni per nuove trivelle: il perimetro di azione resterà quello fissato dal Pitesai, il Piano per la transizione energetica delle aree idonee, ma si proverà a velocizzare le estrazioni dai giacimenti Argo e Cassiopea in Sicilia.

Quello dell'aumento della produzione interna di gas è un obiettivo che il governo si è fissato già da alcuni mesi, ma le attività non sono mai partite e per questo il nuovo decreto punterà a marcare l'avvio di un'operazione che si aggiunge agli altri pezzi necessari a disegnare un approvvigionamento differente rispetto a quello attuale. Il tema, però, resta però sempre quello dei tempi. E qui subentra il secondo scenario. Cosa succederebbe se Mosca staccasse il gas dall'oggi al domani? L'incremento della produzione nazionale non si fa in qualche settimana, mentre le misure di razionamento e la messa a regime delle centrali a carbone avrebbero tempi di attivazione quasi immediati. Il saldo, però, resta negativo.

Di miliardi di metri cubi di gas ne mancherebbero parecchi e a quel punto quella che era pensata come una programmazione rapida, con il rischio incombente sempre in primo piano, si trasformerebbe in una rincorsa. Le misure di razionamento si farebbero via via più corpose, si potrebbe ricorrere agli stoccaggi strategici, ma tutto dipende da se e quando mancherà il gas russo. Così come dalle azioni che l'Europa sarà capace di intraprendere in breve tempo, dall'eventuale tetto al prezzo del gas a misure che diano il senso di una solidarietà concreta. Per ora ogni Paese fa da sé, come hanno fatto la Spagna e il Portogallo con un tetto del prezzo interno che abbasserà l'importo delle bollette. Già, le bollette. Il nuovo decreto per gli aiuti conterrà una proroga degli interventi messi in campo fino ad ora, ma è evidente che risulterebbe insufficiente se la situazione dovesse precipitare. Un altro elemento da inserire in quadro che si è fatto più vulnerabile e perciò più pericoloso.