di Franco Manzitti
Quando Bergoglio si affacciò alla finestra di San Pietro, dopo l’”habemus Papam” di otto anni fa, disse una frase che è rimasta scolpita: "Questa volta i cardinali il papa lo hanno scelto al mondo alla fine del mondo".
Il neo pontefice alludeva alla sua Argentina, patria di adozione dei suoi genitori, sbarcati a Buenos Aires negli anni Venti del Novecento da un piroscafo che aveva salpato proprio dal porto di Genova.
Che l’Argentina sia “il mondo alla fine del mondo” è un po’ una estremizzazione della sua collocazione geografica, vista da questo mondo occidentale del Nord dell’emisfero, al di là dell’Atlantico. Chi viaggia verso l’estuario del Mar de la Plata da Genova e chi torna da laggiù ha questa sensazione, soprattutto se il mezzo scelto è la nave.
Dieci giorni di mare, con almeno cinque senza vedere terra, attraverso l’Equatore, prima di avvistare alternativamente le coste brasiliane o quelle portoghesi, al largo di Lisbona.
Poi “il mondo alla fine del mondo”, terra immensa, che non finisce di scendere, fino alle meraviglie dei ghiacci, dei ghiacciai, della Terra del fuoco, del confine magico con gli arcipelaghi di isole di pinguini e gabbiani, dopo la distesa delle pampe infinite, sempre più sperdute con il cielo che si allarga e non finirei più di contare stelle e costellazioni.
Quella terra che per viaggiare verso l’incanto sterminato della Cordillera delle Ande impieghi giorni e giorni, avendo come orizzonte quelle catena di montagne una dopo l’altra, ognuna di un colore diverso, mano a mano che ti avvicini alle vette immacolate, dietro le quali “precipiti” in Cile, altro miracolo della natura, nel “modo alla fine del mondo”, ma ancora più in là.
Ecco, immaginare questa immensità lontana, che è poi così vicina e il viaggio a ritroso di Jorge Bergoglio, in quella primavera di nove anni fa, quando il fulmine della rinuncia di Ratzinger aveva scosso il mondo e chiamato i cardinali a eleggere il suo successore, è come accorciare quegli spazi immensi e adattarli ai tempi della Chiesa di Roma, alle sue emergenze, alle sue scelte così difficili, così drammatiche.
Quel papa argentino, “criollo”, ma di radici italiane, tra la Riviera ligure e il Piemonte, che sta facendo la sua rivoluzione in un mondo strappato da pandemie e guerre, ha l’urgenza di riformare le sue istituzioni, di spostare addirittura il suo centro da quell’ombelico romano che è il Vaticano, nel quale Francesco ha scelto di abitare sì, ma in un sobrio convento, e non nei grandiosi appartamenti papali, di cercare di vivere come un prete semplice per quanto può, di scegliere i suoi uomini con altri criteri, con altri equilibri mondiali.
E così ecco che una delle grandi rivoluzioni avviene a Genova, da dove il piroscafo che trasportava verso “il mondo alla fine del mondo” i genitori di Bergoglio. in uno di quei viaggi della speranza, era salpato.
Da quasi due anni il pastore delle anime genovesi, successore di grandi cardinali della storia antica e moderna come, Giuseppe Siri, Dionigi Tettamanzi, Tarcisio Bertone, Angelo Bagnasco, arcivescovi con la berretta cardinalizia e le vesti porpora e gli anelli scintillante e le croci tempestate di rubini al collo, è padre Marco Tasca, un frate conventuale francescano, che non si fa chiamare neppure vescovo o Eccellenza, che vive non nell'appartamento dai nobili saloni nella Curia, grandiosa, immersa nei caruggi genovesi, ma in due celle, una per dormire, l’altra per studiare, appunto in un convento dei suoi confratelli.
Padre Marco Tasca, arcivescovo di Genova, gira con il suo saio da francescano, sul quale solo qualche volta calza la berretta color rosso dell’insegna vescovile, con i suoi sandali e nessuna insegna del ruolo.
Spesso si sposta in taxi, arrivando alla porta delle chiese, dove lo aspettano per celebrazioni anche molto impegnative e i fedeli in trepida attesa si stupiscono di veder sbarcare l’arcivescovo da un’auto pubblica, porgendo all'autista il prezzo della corsa.
Nella curia storica di Genova questo nuovo stile un po’ stupisce, un po’ preoccupa e un po’ esalta. La Chiesa genovese, abituata a quelle forme altisonanti dei cardinali precedenti, è ancora in parte ingessata in un formalismo consacrato pur sempre dalla liturgia. Ma dall’altra parte sente l’emergenza di un clero che si sta assottigliando vertiginosamente.
Siamo in una delle città più vecchie del mondo e anche l’età dei “ministri del culto” sente questo precipizio demografico. I seminari arcivescovili sono vuoti. Molti sacerdoti amministrano da soli oramai anche cinque o sei parrocchie.
Tasca è arrivato in questa emergenza totale e sta preparando una mappa nuova per fare fronte a quella che in Italia è forse una delle contingenze più estreme per la chiesa di Roma: il crollo demografico, la de-natalizzazione, che sul fronte clericale abbatte le vocazioni e riduce ai minimi termini i ranghi del ministero religioso.
E allora ci voleva forse un francescano, già Padre Superiore dell’Ordine creato da Francesco d’ Assisi, per affrontare questa situazione.
Sembra che la chiamata a paracadutarsi a Genova sia arrivata improvvisamente al frate Marco Tasca, come quella del Conclave a Bergoglio, attraverso un trillo del telefonino che era addirittura stata scambiato per quella di un anonimo disturbatore.
“Sono papa Francesco _ si era sentito dire il futuro vescovo genovese una volta risposto alla chiamata - corri a Roma che ti devo parlare:”
In un colloquio di due ore il francescano era stato, quindi, “investito” di uno degli incarichi più gravosi, assumendo sul suo saio l’emergenza di una Diocesi spopolata di preti e in questo senso un po’ in fondo “al mondo che sta alla fine del mondo” nella frontiera del cattolicesimo già pressato da tante urgenze.
Tasca ci ha messo quasi due anni ma ha “copiato” il suo Papa, rivoluzionando quella Curia, un po’ bloccata da decenni. Ha nominato tre vicari episcopali, come Francesco aveva scelto gli otto cardinali del suo governo ristretto, esautorando di fatto i vecchi apparati del potere clericale. Ha cominciato a ridisegnare le mappe delle parrocchie. Riceve i postulanti e i fedeli non nei nobili saloni curiali, ma in un piccolo ufficio così come Francesco accoglie i visitatori anche di rango nel collegio di santa Marta.
Insomma il “modello Francesco” è diventato così anche “il modello Genova”.