MARCO FERRARI

L'ultimo dei grandi maestri della fotografia racconta in più di 150 scatti l'Italia dal dopoguerra a oggi, caratterizzato dalla coerenza nelle scelte linguistiche e da un approccio artigianale al suo lavoro. Nato nel 1930 a Santa Margherita Ligure, ma innamorato di Venezia, sua città d'elezione e luogo in cui si forma come fotografo, per passare poi a Milano, Gianni Berengo Gardin al Maxxi di Roma sino al 18 settembre accoglie i visitatori alla bella età di 92 anni esponendo, come un tempo, solo immagini in bianco e nero. "Gianni Berengo Gardin. L'occhio come mestiere", come si intitola la sua personale, narra storie di vita oltre l'immagine fissata per sempre. Il titolo dell'esposizione riprende quello del celebre libro del 1970 curato dal suo amico e collega Cesare Colombo, scomparso nel 2016, antologia fotografica che testimoniava l'importanza dello sguardo, del metodo e delle capacità di spiegare il proprio tempo.

La mostra, a cura di Margherita Guccione e Alessandra Mauro, prodotta dal Maxxi in collaborazione con Contrasto, si apre con un autoritratto del 1962 in compagnia della moglie Caterina. Poi procede non per cronologia, ma per assonanze. Si parte delle prime fotografie negli anni Cinquanta di una Venezia poetica, lungo un percorso che ricorda il Canal Grande, le calli, i campielli per passare alla contestazione della Biennale del 1968, fino al celebre progetto dedicato alle Grandi Navi del 2013.

Da Venezia alla Milano industriale, delle lotte operaie e degli intellettuali, tra i quali si notano Ettore Sotsass, Gio Ponti, Ugo Mulas e Dario Fo. Ma il suo è un viaggio in un Belpaese che cambia, dal nord al Sud, dal buen retiro di Camogli alla Sicilia accentuando le trasformazioni sociali, culturali e paesaggistiche. Nel lavoro presente al Maxxi ecco i reportage dai luoghi del lavoro realizzati per Alfa Romeo, Fiat, Pirelli e, soprattutto Olivetti, dove Berengo Gardin si forma culturalmente. Lì ha lavorato dal 1967 al 1985: «Ho fotografato le fabbriche progettate da grandi architetti, le catene di montaggio, il lavoro operaio, - sostiene - ma soprattutto gli alloggi, le scuole, le colonie estive, le attività culturali, fiore all'occhiello di una realtà rivoluzionaria per l'epoca».

Quella è l'Italia delle grandi industrie, dei sindacati e dei partiti della sinistra, delle battaglie civili e dell'emancipazione della classa operaia. Sembra un tempo lontanissimo rispetto alle problematiche di oggi, eppure quel periodo ha segnato tutta la storia italiana. Con lui entriamo negli ospedali psichiatrici quando nel 1968 pubblicò il volume "Morire di classe", realizzato insieme a Carla Cerati: immagini di denuncia che documentavano per la prima volta le condizioni all'interno di diversi istituti in tutta Italia. Curato proprio da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia, il libro ha contribuito in modo determinante alla costituzione del movimento d'opinione che ha condotto nel 1978 all'approvazione della legge 180 per la chiusura dei manicomi.

Con grande anticipo sui tempi, Gianni Berengo Gardin ha indagato anche sui popoli e la cultura Rom fotografando la vita quotidiana, gli usi e i costumi, i momenti intimi e quelli corali come le feste e le cerimonie. Seguiamo il fotografo nella città dell'Aquila colpita dal terremoto; nel cantiere del museo Maxxi nel 2007; nei ritratti di figure chiave della cultura contemporanea quali Dino Buzzati, Peggy Guggenheim, Luigi Nono, Mario Soldati. Completano il percorso una parete dedicata al suo studio di Milano e un'altra dedicata ai libri, destinazione principale e prediletta del suo lavoro, una sorta di gigantesca libreria che ripercorre le oltre 250 pubblicazioni realizzate nel corso della sua lunga carriera. «Ho sempre cercato l'uomo — sostiene Gianni Berengo Gardin nella sua autobiografia. — Mi piace conoscere le persone che ritraggo». Di qui l'umanità di un popolo ritratto per settanta anni da Berengo Gardin nei diversi passaggi sociali con la compagna di una vita, l'inseparabile Leica. «Non ho mai voluto passare per un artista, mi sento un artigiano», ama ripetere Berengo Gardin. Ma quali sono i capitoli a cui lui tiene di più?  

«Quello sui manicomi, del '68 che documenta per la prima volta le condizioni di vita negli ospedali psichiatrici. Basaglia aveva cominciato ad applicare nuove regole a Gorizia, senza costrizioni fisiche, terapie violente, elettroshock. E poi quello del 1994 sul mondo degli zingari e la loro disperata allegria, come scrisse Günter Grass. Contro i pregiudizi, gli scatti mostravano il fango, la sporcizia, le malattie, ma anche le feste, i matrimoni, i funerali, la lotta continua per la sopravvivenza».