Si torna alla normalità? La Commissione europea ha annunciato che, a partire da giugno, comincerà il percorso di graduale eliminazione del quadro temporaneo sugli aiuti di Stato, che durante il periodo pandemico ha consentito di erogare aiuti alle imprese senza dover sottostare ai consueti vincoli. Poco dopo rientreranno anche le misure di aiuto agli investimenti e alla solvibilità, che dovranno cessare rispettivamente il 31 dicembre 2022 e il 31 dicembre 2023. Complessivamente, la Commissione ha approvato misure per un controvalore di circa 3mila miliardi di euro, grossomodo un quinto del Pil dell'Unione nel 2021, di cui 730 effettivamente spesi.
L'annuncio non è sorprendente e va accolto con favore. La disciplina degli aiuti di Stato costituisce uno degli elementi peculiari della politica per l'integrazione dei mercati europei. L'erogazione discrezionale di finanziamenti da parte dei governi avrebbe, infatti, potuto falsare il gioco competitivo, pregiudicando la libera circolazione dei beni e dei servizi sul territorio europeo. La deroga introdotta durante la pandemia è comprensibile, perché gli Stati sono intervenuti a sostegno di quelle imprese che avevano perso interamente, o quasi, i loro ricavi a causa delle restrizioni e dei lockdown. Tuttavia, l'apertura di questo spiraglio ha indotto molti ad approfittarsene, cercando di strumentalizzare la situazione per intervenire pesantemente sui mercati. E non è un caso se l'erogazione di aiuti si sia spesso accompagnata ad altri provvedimenti, finalizzati non solo a sostenere le imprese nazionali in difficoltà, ma anche a mettere i bastoni tra le ruote degli operatori esteri. È il caso, in Italia, dei ripetuti rafforzamenti del golden power e del tentativo strisciante (e poi parzialmente abortito) di ampliare la presenza di organismi pubblici come la Cassa depositi e prestiti e Invitalia nel capitale delle imprese private.
La logica del divieto degli aiuti di Stato a livello europeo non dipende solo dall'esigenza di garantire regole uguali per tutti. È anche uno strumento a tutela dei Paesi finanziariamente più deboli, o perché hanno piccole dimensioni o perché hanno un basso Pil pro capite. Oppure perché si trovano in una condizione precaria per quanto riguarda la finanza pubblica (citofonare a Palazzo Chigi). È dunque paradossale che proprio un Paese come il nostro si sia spesso battuto per ampliare, anziché limitare, la discrezionalità degli Stati nell'erogazione degli aiuti: se l'Unione europea dovesse rivedere le regole in modo tale da favorire i Paesi che hanno maggiore capacità di spesa e che sanno meglio indirizzare le risorse pubbliche, noi ne usciremmo drammaticamente perdenti. Bisogna quindi sperare che, almeno questa volta, l'Italia comprenda che ha interesse a trovare a Bruxelles un rigoroso garante della parità di condizioni. E non un guardiano distratto che tollera i comportamenti più disinvolti.
Questo solleva due questioni. La prima riguarda l'architettura dell'Unione: al di là del rientro in vigore delle vecchie regole, che è un atto puramente formale, ci sarà un ritorno al rigore sostanziale che in precedenza ha generalmente caratterizzato il modo in cui la Commissione ha dato attuazione alle norme? La seconda domanda è, invece, rivolta alla politica italiana, che certo in questi anni non ha dato prova di lungimiranza nel modo in cui ha approfittato della inedita capacità di spesa: come reagiremo al ripristino del divieto di aiuti di Stato (salvo le eccezioni già codificate)?
Le due domande sono strettamente legate, perché il comportamento degli Stati dipenderà dalla postura di Bruxelles e viceversa. La serietà con cui dichiareremo terminata l'emergenza è un fondamentale banco di prova per capire se c'è una speranza di rimettere il dentifricio nel tubetto o se, invece, la risposta alla pandemia ha indotto un cambiamento strutturale nel disegno europeo, le cui conseguenze non lasciano presagire nulla di buono.