DI MARIO SACCOMANNO
Le storie possono avere radici profonde, in particolare quelle che si scontrano senza sosta con la crudezza di svariati tasselli da prendere, inevitabilmente, in esame durante l’enunciazione.
Infatti, non di rado occorre scavare nel passato più lontano, nei reconditi della propria esistenza e della propria fetta di mondo, per comprendere le ragioni di alcune circostanze. Il giornalista, storico, scrittore e fondatore del Quotidiano della Calabria (oggi Quotidiano del Sud) Pantaleone Sergi, nel suo libro Il giudice, sua madre e il basilisco (Pellegrini editore) compie in primo luogo un’analisi atta a mostrare proprio la fattezza di queste radici da cui scaturiscono le vicende che marcano ogni vita. Infatti, il bagaglio esistenziale dei protagonisti descritti nelle pagine del testo si carica di esperienze contrassegnate dal dolore, dalla fame e dalla guerra. Non a caso, la parte iniziale della storia è segnata anche, e soprattutto, dalle dolorose vicende della Seconda guerra mondiale che sta per volgere a termine. Quanto mostra l’autore è l’imprevedibilità del percorso che pone dinanzi a chiunque alla possibilità di trovarsi immersi in realtà che scaturiscono da scelte non sempre volute e accettate. Infatti, i protagonisti, perlopiù umiliati e offesi, per dirla con le parole di Dostoevskij, intrecciano le loro esistenze attorno a un male che da tempo imperversa nelle terre di Calabria: la ’ndrangheta.
La guerra dei sentimenti - Quanto affermato fino a questo momento si riscontra ampiamente sin dalle prime pagine in cui molta attenzione è riposta alla fuga di Marelina, una ragazza di ventun anni appena, già segnata da un passato fin troppo pesante che le grava addosso.
Come i suoi coetanei, Marelina è nata sfiorando la guerra e subendone pienamente tutti i disastrosi effetti collaterali. Infatti, a lungo non ha avuto la possibilità di conoscere suo padre, Salvatore Candia, mandato in battaglia dal Duce e tornato menomato da un conflitto di cui non ne ha compreso pienamente la portata. Invece, sua madre, Rosa Liotta, è tra le più belle donne del paese, ma, proprio per questo motivo, attira su di sé le attenzioni stomachevoli di Don Ciccio Vasilicò. Da qui l’ex fascista, senza troppe valutazioni in merito, decide di prendere con la forza la donna che, dopo l’onta subita, si fa giustizia da sola pugnalando al cuore il suo aggressore.
La piccola Marelina è costretta a subire anche altre cocenti privazioni familiari. Infatti, spinto dalla fame, il padre si sposta nel Nord Italia sperando di trovare un lavoro dignitoso; ad attender- lo è soltanto la solita vita di stenti che, emblematicamente, si conclude con una morte bianca, avvenuta, come per tanti altri, nel cantiere in cui si ostinava a cercare una propria dimensione.
A seguito di questo avvenimento, la madre della giovane intra- prende una relazione con Rosario Borrello detto Sarino, uomo avvenente, ma appartenente alla malavita. Scelta che spinge la ragazza ad abbandonare la casa materna tra l’indifferenza generale.
Una vita da determinare
Così è il treno a divenire il simbolo sia di una nuova vita da costruire, sia delle dolorose radici da estirpare. Marelina attraversa la nazione sul Freccia del Sud, direzione Milano, dove ad aspettarla vi è Melinna, figlia di Nino Manganaro, una sua amica di infanzia cresciuta nella stessa ruga.
Inevitabilmente, Mambrici, il paese natale, si appresta a divenire soltanto un lontano e triste ricordo. La descrizione della protagonista che compie Sergi racchiude pienamente i sentimenti che per decenni hanno albergato nei migranti del Sud. In merito si legge nel testo: «L’umore di Marelina era tipico dell’incertezza. Oscillava come un pendolo tra l’indolore distacco dalla terra lasciata fragrante di profumi intensi e il timore di quell’altrove indefinito, quel nuovo mondo all’apparenza così attrattivo ma così diverso».
Eppure, questo senso di disagio e stordimento viene presto alle- viato nella fabbrica in cui trova lavoro. Infatti in quella stanza, gremita di donne costrette come lei ad abbandonare la propria terra per la troppa fame, si scopre quel senso di fratellanza (o qui sarebbe meglio dire sorellanza) che intercorreva tra i migranti: riconoscendosi nell’infelicità altrui, i più “esperti” facevano scudo attorno ai nuovi arrivati, per consentire di guardare al futuro con rinnovata speranza.
Sergi mostra limpidamente come i migranti del Meridione, estranei all’interno degli stessi confini nazionali, abbiano dovuto lottare continuamente sia con una cultura molto distante dalla loro, sia, ancor di più, con la diffidenza di chi non li considerava loro pari.
La mafia come quotidianità
A questo punto è possibile presentare anche un’altra figura emblematica inclusa nel romanzo: Enrico Zanda, il nuovo sostituto procuratore. Il primo caso che gli viene affidato è quello di un omicidio avvenuto il giorno dell’Epifania 1991 a Mambrici.
A morire per mano mafiosa è Santino Giuffrida che decenni prima, negli anni Cinquanta, era finito in una faida per essersi opposto al pizzo e per aver difeso l’onore della sua figlia più piccola, divenendo, da vittima, omicida. Nello spargimento di sangue derivante da queste azioni, lo stesso Giuffrida aveva perso la moglie e il figlio per mano altrui.
Nei vari capitoli, il passato e il presente si legano inscindibilmente all’interno di una vicenda che vede Giuffrida avvicinato dai sicari di don Rosario Borrello, altra figura costante e paradigmatica del romanzo, un uomo che, come molti altri esponenti della malavita reale, si sostituisce alla magistratura diventando giudice e carnefice allo stesso tempo.
Borrello è il padre-padrone dei suoi concittadini, costretti a rivolgersi a lui anche per le più piccole controversie personali che sorgono a Mambrici. Il boss mafioso è arrivato al
punto di farsi eleggere sindaco al culmine del suo potere portando alla disperazione più cupa un popolo assoggettato al comando della malavita e incapace di difendersi a causa del benestare delle forze politiche. Da qui, la figura fonda- mentale del nuovo sostituto procuratore che sembra essere in grado di agitare anche la calma apparente dell’ingiustizia sociale.
Il destino e i suoi intrecci - Avvalendosi di continui flashback, Sergi racconta le vicende dei suoi personaggi scavando all’interno del loro passato. Agendo in questo modo riesce a dare ai lettori un quadro completo e proficuo dei suoi protagonisti, le cui storie diventano sempre più interconnesse tra loro.
Così sia il piccolo paese calabrese sia la metropoli lombarda creano un unico sfondo alle storie raccontate e permettono di comprendere molti dei tratti caratteristici
della società italiana che hanno contrassegnato le vite di intere generazioni.
La mancanza di cibo e libertà ha attanagliato per decenni un territorio ostico come quello del Sud. Qui, le speranze di una vita migliore si sono spesso scontrate col malaffare e l’omertà di troppi soggetti che hanno spremuto una regione abbandonata a un destino che a molti appari- va, e appare tuttora, ineluttabile.
Dunque, attraverso il personaggio di Enrico Zanda, il filo narrativo si tramuta in un pretesto attraverso cui Sergi mostra ai propri lettori una realtà difficile da accettare e, ancor di più, da combattere.
Così l’accondiscendenza, mostrata sovente da gran parte della popolazione, che l’autore tratteggia e dissemina con acutezza in molte parti del testo, non è certamente dovuta all’inerzia dinanzi alla possibilità di riprendere in mano il proprio destino.
Infatti, nel testo è comunque ben presente una fame di giustizia che si frappone a quel senso di rassegnazione che può apparente- mente essere scorto negli animi della maggioranza, troppe volte impossibilitata ad agire dinanzi ai torti subiti.
Non solo: all’autodeterminazione si aggiunge il destino che fa eco all’interconnessione dei protagonisti. In merito, a conclusione risulta emblematico uno stralcio di testo che occorre riportare: «La giustizia ha i suoi tempi, imprevedibili, ma quasi sempre arriva. Anche dopo anni presenta il conto. E quando non arriva o è in ritardo quella degli uomini, c’è sempre quella della natura che non accetta raccomandazioni e non si presta ad aggiustamenti di sorta».
Una storia diversa - Dunque nel suo romanzo Sergi mira a cogliere la vera essenza della mafia. Ecco perché nel testo non mancano i richiami a quel- la organizzazione criminale che si è evoluta fino al punto di diventare una vera e propria religione.
Perfino la Chiesa, infatti, in terra calabra è dovuta scendere a compromessi laddove la fede e l’idolatria si mescolano in maniera irrispettosa. «Il Santo incolpevole, così, ondeggiando sulle spalle dei portatori fu inchinato rendendo omaggio al boss ch’era un suo grande devoto» scrive l’autore, mostrando un scorcio di quanto spesso avviene realmente nei paesini legati in maniera indissolubile a un potere che si fa beffe persino della sacralità.
Pertanto, Il giudice, sua madre e il basilisco è un testo in grado di mostrare, attraverso le caratteristiche peculiari del romanzo, le reali brutture che sono appartenute, e tuttora appartengono, a determinati territori.
Occorre aggiungere che il boss locale viene raccontato senza inutili orpelli. Si tratta di un uomo rozzo e ignorante, violento e meschino, convinto di avere la ragione dalla propria e del tutto incurante del male che arreca a chi gli gravita attorno. Da qui, Sergi presenta la forza bruta come unico vessillo di una voglia insaziabile di sottomettere la volontà altrui alla propria. In questi termini si spiega anche la vendetta, vero e proprio motore immobile che dirige coloro i quali appartengono alla ’ndrangheta.
Così autodeterminazione e fato si mescolano in una danza macabra che assume troppe volte il colore del sangue. I personaggi raccontati lotta- no contro un destino che sembra volerli dominare, proprio mentre cercano di stabilire con le loro forze il cammino da percorrere.
(da BOTTEGA SCRIPTAMANENT)
PANTALEONE SERGI - Laureato in Scienze Politiche all'Università di Messina, ha lavorato ai quotidiani L'Ora, L'Unità, il Giornale di Calabria, ed è stato inviato speciale del quotidiano La Repubblica, nonché fondatore e direttore de Il Quotidiano della Calabria. In trent'anni di professione ha collaborato con numerose testate giornalistiche quotidiane e periodiche nazionali ed estere. Ha insegnato, per diversi anni, Storia del giornalismo e Linguaggio giornalistico nelle facoltà di Scienze Politiche e di Lettere dell'Università della Calabria. È deputato di Storia patria della Calabria. Dal dicembre 2010 al dicembre 2018, è stato presidente dell'ICSAIC (Istituto calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea), ed è tuttora presidente del Centro di Ricerca sulle Migrazioni con sede all'Università della Calabria. Dal 2002 al 2007 è stato sindaco del comune di Limbadi. Dal giugno 2005 al marzo 2010 è stato portavoce del presidente della Regione Calabria. Scrive libri di storia del giornalismo, dell'emigrazione e sull'evoluzione della criminalità organizzata, con particolare attenzione alla 'ndrangheta calabrese e alla mafia lucana dei Basilischi. Dal 2010 ha concentrato la sua ricerca storica sui giornali dell'emigrazione italiana nel Cono Sud dell'America Latina e in Turchia. Nel 2017 ha esordito come narratore con il romanzo "Liberandisdòmini". È condirettore del Giornale di Storia Contemporanea e direttore responsabile della Rivista storica calabrese.
È editorialista del quotidiano Gente d'Italia.