di Anonimo Napoletano
È una rivoluzione per l'Italia, un fenomeno senza precedenti nel nostro Paese, che potrebbe avere ripercussioni importanti sull'intero mondo del lavoro. L'italiano medio sta fuggendo dal posto fisso, alle volte dimettendosi, altre volte non presentandosi nemmeno a competere per una nuova assunzione. È un fenomeno che tocca principalmente il settore privato ma che, ultimamente, sta estendendosi persino alla pubblica amministrazione, con i giovani che, per la prima volta nella nostra storia, dicono no a ad un posto statale a tempo indeterminato, un comodo approdo dove si viene cullati fino alla pensione. Il fenomeno ha anche un suo nome, anglosassone, dal momento che è partito prima negli Stati Uniti e nel Nord Europa, e solo da pochi mesi si registra anche da noi: si chiama "Big Quit" o "Great Resignation". Una vera e propria fuga a colpi di dimissioni. Che oltre a segnare una svolta sociale, rischia di mettere in difficoltà imprese e uffici pubblici, costringendoli a rivedere in profondità le proprie politiche del lavoro, dal salario alle modalità di impiego. Già, perché dietro a questa nuova tendenza ci sono radici profonde e motivazioni di diverso tipo. Ma prima diamo un'occhiata ai numeri.
Secondo l'Inps nel trimestre aprile-giugno sono stati 484mila i lavoratori che si sono dimessi dal posto di lavoro. Un fenomeno nettamente in aumento se si considera che le dimissioni volontarie nell'ultimo trimestre sono cresciute del 40% rispetto allo stesso trimestre dell'anno precedente, e addirittura dell'85% rispetto al secondo trimestre del 2020.
La fuga dal posto fisso sta interessando soprattutto il Nord-Est dell'Italia, la zona più ricca del Paese e quella con il minore tasso di occupazione. E questo si spiega facilmente perché dove c'è meno disoccupazione è più facile trovare un lavoro diverso o essere reintrodotti in breve periodo nel mondo produttivo. L'agenzia regionale Veneto Lavoro, nel suo ultimo report, ha evidenziato che nei primi quattro mesi del 2022 le dimissioni volontarie sono aumentate del 50% rispetto all'analogo periodo dello scorso anno, arrivando a quota 66.300. Secondo l'osservatorio della Cisl Veneto, è il terziario il comparto che ha segnato il maggior numero di abbandoni, con quasi il 38% del totale. Le persone lasciano prevalentemente aziende del commercio, del turismo e dei servizi e spesso passano ad attività di tutt'altro genere, come il manifatturiero. Per quanto riguarda invece i metalmeccanici, le dimissioni da questo comparto in Veneto rappresentano il 22,2% del totale.
Non va meglio in Friuli Venezia Giulia. Secondo l'Osservatorio regionale sul mercato del lavoro, sono 12.333 i cittadini che hanno deciso di lasciare il lavoro nei primi tre mesi del 2022. Sono il 45,6 per cento in più rispetto alla media del triennio precedente.
E il trend sembra destinato ad aumentare nei prossimi mesi. Secondo una indagine di "Indeed", portale specializzato nel recruitment, oltre il 46% dei lavoratori italiani sta pensando di cambiare lavoro. E Marco Bentivogli, ex segretario metalmeccanici della Cisl, afferma che «solo il 5% dei lavoratori è soddisfatto del proprio lavoro».
Ma chi sono e cosa vogliono queste persone in fuga dal posto fisso? I vari osservatori regionali sono concordi nel dire che in maggioranza si tratta di maschi. Il 30% ha meno di 30 anni e il 25% è nella fascia 40-49 anni. Meno inclini al cambiamento i lavoratori tra 30 e 39 anni, un'età in cui in genere si cresce in carriera e non si è ancora stanchi dell'impiego svolto fin ora. Ma anche in questa fascia un 22% ha lasciato il posto per cercare qualcosa di meglio.
Ma quali motivazioni muovono questo esercito di insoddisfatti del lavoro? In prevalenza, come è logico, è l'insoddisfazione per il livello salariale e la ricerca di guadagni migliori. Specialmente in presenza di un reddito di cittadinanza che negli ultimi anni ha garantito anche a chi se ne sta a casa di percepire fino a 750 euro mensili: perché sfacchinarsi 48 ore a settimana per guadagnarne 300-400 euro in più? Ma Questo è solo un aspetto del fenomeno, e non spiega l'incredibile aumento delle dimissioni registrate nel periodo post-lockdown. Molti analisti puntano il dito sullo smartworking, che ha fatto rivalutare agli italiani l'importanza della qualità del lavoro e del peso del pendolarismo. Molti dunque si sono messi in cerca di impieghi che consentissero forme di lavoro a distanza o comunque una più alta qualità della vita. Ed è proprio questa la rivoluzione che più dovrebbe interessare gli esperti di recruitement e gestione del personale: per le nuove generazioni il valore della qualità del luogo di lavoro, gli stimoli dell'ambiente di lavoro e la possibilità di crescita anche formativa sono fattori che assumono una importanza sempre maggiore.
E queste motivazioni non potevano non interessare anche la pubblica amministrazione. In questo caso, il fenomeno interessa particolarmente i giovani del Sud Italia, che da sempre sono i più numerosi partecipanti di concorsi pubblici. Ebbene, questa tendenza storica sembra oggi invertirsi. Nonostante i terribili dati sulla disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno, i dati peggiori di tutta l'area dell'Unione europea, molti dei ragazzi meridionali non sono più disposti a trasferirsi al Nord per un posto nella pubblica amministrazione. Il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, il 26 maggio, in audizione alla Commissione Trasporti della Camera ha spiegato che «recenti assunzioni per motorizzazioni e provveditorati sono andate in parte deserte, in particolare al Nord». Dei 320 funzionari di amministrazione messi a concorso, «una quota consistente ha rinunciato evitando di prendere servizio a meno che non fosse indicata una sede al Sud». Solo dieci anni fa sarebbe stato impensabile. La scelta è però spiegabile se si analizza l'entità dello stipendio base di un impiegato pubblico e il costo della vita al Centro-Nord. Per un siciliano o un calabrese lasciare la casa familiare per pagare affitti a Milano di anche mille euro al mese, a fronte di stipendi medi che vanno da 1.300 a 1.500 euro al mese, significa non riuscire nemmeno ad assicurarsi la sussistenza. E non c'è solo il costo dell'abitazione. Secondo un'indagine del Codacons, nel 2021 Milano era la città più cara d'Italia: per mangiare nel capoluogo lombardo, infatti, bisogna spendere in media il 47% in più rispetto a Napoli. Per un ragazzo al suo primo impiego come, ad esempio, collaboratore scolastico, trasferirsi al Nord significherebbe condannarsi all'indigenza. Anche qui, il raffronto con il reddito di cittadinanza è decisivo: 750 euro li prendo se resto al mio paesello senza fare niente. Le soluzioni? Alzare gli stipendi dei lavoratori della pubblica amministrazione (innescando però una spirale inflazionistica) o assicurare altre forme di sussistenza per i dipendenti che prendono un posto lontano da casa, come buoni pasto e affitti bloccati.