di Emilio Barucci
Le notizie che vengono da Francoforte sponda BCE ci dicono che la musica è cambiata. Abituiamoci in quanto non siamo più ai tempi della crisi dell’Euro e a Francoforte non siede più Mario Draghi ma Christine Lagarde, una persona che quanto a competenze, esperienze e credibilità non regge il paragone con il predecessore. Il punto è che le decisioni prese all’unanimità dal Consiglio Direttivo della BCE – cosa non scontata viste le divisioni al suo interno - vanno da un lato ben oltre le attese e dall’altro non suonano molto rassicuranti e credibili almeno per quanto ci riguarda.
Se da un lato era stato già annunciato lo stop a partire da luglio al piano di acquisti netti di titoli da parte della BCE (eredità della crisi dell’euro e della pandemia), meno scontato era l’innalzamento dei tassi in interesse a partire da luglio (25 punti base), il messaggio è stato ancora più duro del previsto in quanto è stato condito dalla certezza di un aumento di almeno 25 punti base a settembre, aumento che potrebbe essere ricalibrato verso l’alto a seconda dell’andamento dell’inflazione.
Con queste due ‘’strette’’ BCE esce dal terreno dei tassi negativi (il tasso sulle riserve delle banche presso BCE sarà tornato a zero). Si tratta di una manovra largamente prevista dai mercati (i tassi negativi debbono rimanere un’eccezione), quello che colpisce è l’accelerazione, fino a qualche settimana fa si prevedeva infatti che la manovra sarebbe stata completata soltanto entro la fine dell’anno. Ma c’è di più, la BCE sembra aver passato il Rubicone ed essersi convinta – dopo mesi attendesti e di errori nelle previsioni - che l’inflazione non sia un fenomeno passeggero ma duraturo e esteso non coinvolgendo soltanto i prodotti energetici. Da qui la decisione di intraprendere un percorso di aumento dei tassi ‘‘graduale ma duraturo’’, come dire non ci fermiamo qui tanto che i mercati scontano un aumento di oltre 100 punti base di qui a fine anno.
Si tratta di uno scenario che rischia di farci molto male. I motivi sono due, uno riguarda tutta l’area dell’Euro e uno riguarda l’Italia.
Sul primo fronte il timore è di innescare una recessione. Le previsioni di crescita sono ancora confortanti (3% nel 2022 e 2% nel 2021) ma il rischio di esagerare è sempre dietro l’angolo. La sensazione è che la crescita post COVID sia comunque robusta e che il rischio stagflazione (recessione e aumento dei prezzi) sia tutto sommato limitato. Questo problema è comunque ben presente nel radar della BCE.
Per l’Italia invece le cose si complicano notevolmente e il problema è sempre il costo del debito che può essere misurato dal rendimento dei titoli di Stato. Tale rendimento è dato dalla somma di due componenti: il rendimento dei titoli considerati privi di rischio (BUND) e lo spread rispetto a questi (spread BTP-BUND). Il primo dato rappresenta quanto i risparmiatori richiedono per prestare denaro con la certezza di ricevere indietro i loro soldi, il secondo mostra l’extra rendimento che richiedono per paura che l’emittente (in questo caso l’Italia) non sia in grado di onorare i suoi impegni come successe alla Grecia. Da quando Draghi è diventato Presidente del Consiglio, il rendimento dei BUND a dieci anni è passato da -40 a 140 punti base, lo spread BTP-BUND è passato da 90 a 230. In totale siamo passati da un rendimento di 50 punti base a 370. I tassi di interesse reali sono sempre negativi grazie alla fiammata inflazionistica e quindi ne beneficiamo sul fronte del debito pubblico ma la pacchia dovrebbe durare poco: se le previsioni sull’inflazione ci azzeccano, già nel 2023 i tassi reali tornerebbero ad essere positivi.
Il problema è che la Lagarde ha di fatto lasciato avvolto nelle nebbie lo scudo anti spread. L’unica cosa certa è che BCE continuerà a reinvestire i fondi ottenuti dai titoli acquistati con il programma di acquisti legato alla pandemia, sembra difficile che possa bastare per mettere l’Italia al riparo. Nell’eventualità che gli spread tornino a salire in alcuni paesi la BCE potrà mettere in campo strumenti già utilizzati (acquisto titoli di Stato) e nuovi non definiti strumenti.
La sensazione è che non si sia davanti a un nuovo ‘‘Whatever it takes’’. I mercati non sembrano crederci, memori del passo falso della Lagarde in occasione dell’ampliamento dello spread causa COVID nella primavera 2020. In quella occasione disse che non era compito delle BCE tenere sotto controllo lo spread.
Quello che possiamo aspettarci è che, a fronte di un innalzamento significativo dello spread di alcuni paesi, la BCE intervenga per eliminare le distorsioni dei mercati monetari che potrebbero rendere inefficace la trasmissione della politica monetaria. Questo scenario presuppone che le BCE riconosca la presenza di una componente anomala nei tassi di interesse dei paesi dovuta a illiquidità o a fenomeni speculativi. Il punto è che si riparte da zero: siamo tornati indietro di dieci anni, per andare al punto si dovrà far riconoscere di nuovo in Europa che c’è un ‘‘problema Italia’’ per ottenere uno scudo anti spread e questo passerà per un percorso accidentato e solo dopo che ne avremo pagato il costo. La Lagarde al riguardo è stata chiara, non ci sarà alcun automatismo e non si guarderà ad un singolo indicatore.
Abituiamoci, il paracadute BCE non c’è più e il percorso per riattivarlo sarà lungo e costoso per il nostro paese (mesi con spread elevati) anche perché la partita adesso si sposta nell’ambito della riforma delle regole europee in ambito fiscale. Insomma la BCE non svolgerà più un ruolo di supplenza, non ci sono meccanismi belli e pronti, non c’è alcun automatismo. Questo i mercati lo hanno capito e tutto ciò non può renderci tranquilli.